Riministoria-il Rimino
I Tre Martiri di Rimini. 1944-2014

Antonio Montanari
I giorni dell'ira.
Settembre 1943 - settembre 1944 a Rimini e a San Marino


Dal capitolo IV. Repubblichini e nazisti.
I Tre Martiri di Rimini rappresentano bene l’immagine di gente comune, oscuri attori che la cieca violenza nazi-fascista fa diventare protagonisti, recidendo vite giovani. Sono ragazzi costretti a vedere nella lotta armata l’unica strada per riconquistare la libertà per tutti. La Resistenza (quasi sempre) fece dimenticare ai suoi uomini le differenze sociali, e quelle ideologiche. A ricrearle, quelle differenze, spesso ci hanno pensato gli storici, quando hanno ricostruito le vicende di quei momenti.

In una stanza al pianterreno del convento delle Grazie, trasformata in prigione, trascorsero le loro ultime ore Mario Capelli (23 anni), Luigi Nicolò (22) e Adelio Pagliarani (19), i Tre Martiri, che erano stati sorpresi nella base partigiana di via Ducale a Rimini. "Penso che siano stati collocati lì, perché quella stanza funzionava già da prigione e, per di più, il luogo non era molto lontano dal Comando tedesco": infatti erano frequenti le ispezioni dei militari germanici. Così ricorda quei momenti padre Teodosio Lombardi che allora si trovava nel convento del Covignano. Prosegue padre Lombardi: "Il padre Callisto Ciavatti… ebbe contatti con i tre partigiani e li visitò più volte, fino al giorno in cui furono condotti nella piazza Giulio Cesare di Rimini per essere impiccati". Era il 16 agosto ’44.

Nel 1946 padre Ciavatti inviò al tribunale di Forlì, dove si discuteva la causa per la morte dei Tre Martiri, una deposizione scritta che ricostruisce in maniera molto particolareggiata quanto avvenne alle Grazie il 15 agosto 1944: quel giorno, scriveva padre Ciavatti, "fui informato dal Comando tedesco di Covignano della cattura operata dal Segretario Politico di Rimini [Paolo Tacchi], di tre giovani della città di Rimini. Fui pure informato che sarebbero stati giustiziati l’indomani mattina. Mi presentai al Comando tedesco alle 19 del giorno stesso, dopo aver porto ai tre prigionieri il mio primo saluto. I tre prigionieri, sottoposti evidentemente a torture, erano in condizioni pietose. Il Comando tedesco, dopo ripetute richieste, mi concesse di portare l’assistenza spirituale ai detenuti, il mattino seguente alle 6.30. Successivamente però potei ancora intervenire, attraverso l’interprete, onde commutare la pena di morte nella deportazione. Alle 20 circa uscii dal Comando di Covignano, con la promessa fattami, tramite l’interprete, di rivedere la cosa e con l’ordine di non presentarmi al mattino successivo, attendendo nuove disposizioni. Ma fatti pochi passi, incontrai Tacchi. Egli mi chiese in tono perentorio il perché della mia visita e, alle mie spiegazioni, esclamò: "Niente da fare, padre. La giustizia umana è ormai compiuta". Ma il dubbio che mi percosse in quel momento, diventò certezza allorché, incontrato di nuovo il Tacchi, verso le 22, egli ebbe ad esclamarmi: "Padre, lei è servito!". Poco dopo l’interprete mi confermava la condanna a morte per impiccagione dei tre giovani".

Padre Lombardi, la mattina dell’impiccagione dei giovani, si reca a dir Messa nella chiesa di San Gaudenzio: "Nel ritorno al convento", racconta, "vidi i Tre Martiri, legati con le mani dietro la schiena, scortati dai tedeschi, che si dirigevano verso Rimini".

Padre Amedeo Carpani, che si trovava pure lui al convento del Covignano, il 16 agosto mattina si alzò alle tre e andò subito sotto il portico della Chiesa, "pensando al destino dei poveri giovani". Non ha più speranze di salvarli dall’esecuzione capitale. La sera prima, è andato assieme a padre Callisto Ciavatti, a scongiurare il Comando tedesco "di non ucciderli, ma di portarli eventualmente in Germania". Conferma padre Carpani: "Non ci fu niente da fare, anche perché Tacchi, che comandava a Rimini, era molto deciso a giustiziarli". Padre Carpani, alle sei di quel 16 agosto, vede arrivare "sul piazzale delle Grazie gli ufficiali tedeschi, con una piccola squadra di Mongoli, a prelevare i tre giovani", che, con le mani legate dietro alla schiena, vengono condotti in piazza Giulio Cesare: essi "erano convinti di essere fucilati, ma poi quando seppero che venivano impiccati rimasero molto male". Padre Carpani "di nascosto riuscì a seguire i particolari di quella triste vicenda andando sino alla piazza" Giulio Cesare.

Chi era quel Leone Celli (barbiere, originario di Forlimpopoli) che aveva permesso la cattura dei tre giovani? Un "infame" come scrissero i partigiani nella relazione sul fatto? O anche lui una vittima degli eventi? Celli si sarebbe trovato coinvolto casualmente nella vicenda. Assieme ad altre persone verso l'8 agosto, aveva assistito alle minacce rivolte da un contadino ad una vecchietta che raccoglieva frutta da un albero del podere. Celli ne prese le difese, minacciando il contadino per il tono violento usato contro la donna, eccessivo rispetto all'entità del furto subìto. Qualche giorno dopo quell'episodio, è incendiata una trebbiatrice, il 12 agosto. Celli viene sospettato di essere l'autore del sabotaggio. Fermato dai repubblichini, forse perché picchiato o forse per evitare guai peggiori, scambiò la propria salvezza con la delazione: "So dove ci sono dei partigiani", avrebbe detto. Lui, come barbiere, in via Ducale, c'era stato qualche volta.

Quando furono arrestati i Tre Martiri? Il 13 agosto verso le 17.30, secondo un articolo di Montemaggi del ’64 in cui si riportava una testimonianza di Paolo Tacchi. Montemaggi nel ’94 ha spostato l'evento al giorno 14 in base al "Rapporto riservato" (stilato il 30 agosto), del 471° Gruppo germanico. Nel "Diario di guerra" del Comando Supremo della Decima Armata tedesca, la notizia è registrata il 15 agosto: lì si trova anche scritto che la cattura dei tre "banditen" avvenne "nell'ospizio Marino (poco a sud-est di Rimini)" in località Comasco: è un errore. I tre giovani sono stati catturati nell'Ospedalino Infantile (Aiuto Materno, via Ducale). Padre Carpani ricorda il 14 agosto. In altre fonti si parla di quanto tempo i tre giovani restarono nelle mani dei nazi-fascisti. Secondo Maria Pascucci ("Il ras di Rimini [Tacchi] li tortura per far loro confessare i nomi. Essi tacciono e resistono…"), si tratta di "tre giorni". Essendo stata eseguita l'esecuzione capitale il 16 mattina, la cattura sarebbe dunque avvenuta il 13 pomeriggio. Per Guido Nozzoli, tra l'arresto e l'esecuzione non passarono che trentasei ore. Quindi la cattura sarebbe del 14. Chi vi era presente? Secondo Montemaggi (1994), c'era Alfredo Cecchetti [Cicchetti]. Per Nozzoli, Cicchetti non era nella base di via Ducale al momento dell'irruzione.

Ad un pranzo ufficiale di ringraziamento da parte dei tedeschi ai medici dell’ospedale di Rimini nel giugno ’44, Paolo Tacchi ha pronunciato "una specie di discorso": "…penso che la guerra per noi sia già perduta… […] La Germania e l’Italia… ormai sono fuori combattimento". Il col. Christiani, ascoltando le parole di Tacchi, tradotte da un interprete, "diventò pallido e mostrò la sua incredulità e sofferenza". Un allarme aereo tolse dall’imbarazzo gli invitati italiani, già in preda ad un "certo panico" per quell’incidente politico. Ognuno "prese la via della fuga". [M. Righi]
Rimini ieri. 1944-1945
I Tre Martiri.
"il Ponte", Rimini. 06.08.1989
Una trebbiatrice bruciata, la spiata e la cattura dei giovani partigiani in via Ducale. Le testimonianze sulla loro prigionia alle Grazie e sull'esecuzione in piazza Giulio Cesare. I processi a Paolo Tacchi, il terrore di Rimini: dalla condanna a morte all'assoluzione.

Estate 1944. La città è sconvolta e devastata dalle bombe. I tedeschi sono sempre più prepotenti. Il primo luglio il Cln pubblica un appello a non trebbiare il grano per impedire ai nazisti di prenderselo e di portarlo in Germania.
Alla fine di luglio, una lettera anonima arriva al Comandante del 303° reggimento granatieri tedeschi, col. Christiani, ed al segretario del fascio repubblicano, Paolo Tacchi.
C'è scritto che due uomini armati ed uno apparentemente inerme hanno intimato ad un colono di Fornaci Marchesini, di non effettuare la trebbiatura con la macchina di proprietà dei padroni del fondo.
Il 12 agosto quella trebbiatrice è incendiata una squadra Gap (Gruppi di azione patriottica) appartenente alla 29.a brigata, e composta da sette uomini. La loro base logistica è alla ex caserma "Ducale", nell'omonima via, nei presso del ponte di Tiberio.
Tedeschi e fascisti si mettono in movimento per individuare i responsabili dell'attentato, sulla traccia della lettera anonima. Vengono eseguiti alcuni arresti.

Una delle persone fermate, è messa alle strette. Rivela il nascondiglio dei gappisti.
Chi 'parla' è un barbiere, Leone Celli, nato a Forlimpopoli nel 1912. «Una losca figura», secondo l'antifascista Guglielmo Marconi.
13 agosto. Militi repubblichini e soldati nazisti guidati da Tacchi circondano la base partigiana.
Mario Capelli, Luigi Nicolò ed Adelio Pagliarani, sorpresi nel nascondiglio con armi e volantini, sono condotti nell'ex caserma dei Carabinieri alle Grazie. La loro prigione di trova nell'attuale portineria del convento.

Paolo Tacchi, segretario del fascio, fornirà una versione dei fatti tutta diversa, per allontanare da sé l'accusa di triplice omicidio.
Tacchi racconta che la sera del 13 agosto «fu richiamato al Comando tedesco ove gli dissero che il barbiere aveva confessato che uno dei due armati» della lettera anonima, «era il partigiano Alfredo Cicchetti, abitante in via Ducale n. 3 (e cioè nella vecchia caserma)».
Un maresciallo tedesco ed un interprete furono incaricati di accompagnare il barbiere sino a via Ducale. Tacchi che doveva percorrere lo stesso itinerario per andare alla colonia Montalti alle Celle, seguì casualmente la macchina dei due militi.
In tribunale, nel 1949, Tacchi deporrà: «Entrati trovammo tre persone delle quali una in divisa germanica, una in divisa di vicebrigadiere della Gnr, in camicia nera con distintivi di grado e decorazioni». Intorno le armi, tre mitragliatrici ed alcune rivoltelle.
Il vice di Tacchi nella brigata nera di Rimini, Mario Mosca, per difendere il suo capo, ne rovescia il racconto. Non fu Tacchi a seguire casualmente i nazisti, ma «un maresciallo tedesco si mise alle costole di Tacchi», per quella ricerca in via Ducale. Una volta scoperti i tre ragazzi armati, il «nazista si fece avanti: voi non c'entrate più, ora è affar nostro».

Ritorniamo al convento delle Grazie, dove sono stati trasferiti i tre arrestati.
Padre Amedeo Carpani, assieme al confratello padre Callisto Ciavatti, scongiura il Comando tedesco di non ucciderli, ma di portarli eventualmente in Germani: «Non ci fu niente da fare, anche perché Tacchi, che comandava a Rimini, era molto deciso a giustiziarli», ha dichiarato padre Carpani.
Tacchi è segretario dei repubblichini dal dicembre 1943. Comanda la Brigata nera «Capanni» ed è di conseguenza a capo di tutti gli organi di polizia.
Convinto collaborazionista, ha fatto eseguire numerosi rastrellamenti di renitenti e partigiani. Molti dei quali sono stati sottoposti a maltrattamenti e sevizie. Il suo nome, in quei giorni a Rimini, ci ricorda un'anziana signora, vuol dire soltanto «terrore».
Appartiene ad una facoltosa famiglia riminese. Squadrista a 16 anni, si è scontrato con i gerarchi fascisti per le sue idee indipendenti. È tornato a Rimini proprio la sera di domenica 25 luglio 1943, in licenza di convalescenza (è sottufficiale della Marina). Quella sera, dalla stazione va verso casa sua in via Dei Mille, quando qualcuno gli urla: «È finita anche per te». Mussolini è stato arrestato alle 17. Ne nasce una zuffa, sedata per l'intervento di altre persone.
Che sia stato lui a far arrestare i Tre Martiri, non ci sono ormai più dubbi. Tacchi firmerà anche il manifesto azzurro della Brigata «Capanni», datato 16 agosto 1944, con cui è annunciata l'avvenuta esecuzione dei giovani riminesi.

14 agosto 1944. Capelli, Nicolò e Pagliarani sono sottoposti a processo sommario, celebrato dalla corte marziale del 303° reggimento granatieri tedeschi del col. Christiani. Riconosciuti come partigiani, Capelli, Nicolò e Pagliarani sono condannati a morte. La sentenza è subito ratificata dal gen. Ralph von Heygendorff, comandante della Divisione di stanza a Cesena.
Il 15 agosto sera, padre Ciavatti ha un incontro con i tre giovani. Riesce a «riconciliarli e rasserenarli». Ventiquattr'ore prima, i prigionieri non si erano mostrati disposti per un incontro spirituale, racconta padre Carpani.
I ragazzi scrivono ciascuno una lettera per i propri famigliari, che consegnano a padre Ciavatti. Sono documenti strazianti.

16 agosto 1944. Alle 3 del mattino, padre Carpani esce dalla propria stanza, e cammina sotto il portico del convento, pensando al destino dei tre prigionieri. Alle sei, sul piazzale delle Grazie arrivano gli ufficiali tedeschi con una piccola squadra di mongoli, ex soldati russi prigionieri collaborazionisti.
Prelevano i tre giovani che sono condotti, le mani legate dietro alla schiena, sino alla piazza Giulio Cesare. I prigionieri, ricorda padre Carpani, erano convinti di dover essere fucilati. «Quando seppero che venivano impiccati, rimasero molto male».
Padre Carpani di nascosto riuscì a seguire i particolari di quella triste vicenda, andando sino alla piazza, ricostruisce padre Teodosio Lombardi.
Padre Lombardi, quella mattina, incontrò il carro con i tre giovani che scendevano verso Rimini, mentre stava tornando al convento delle Grazie dopo aver celebrato Messa alla chiesa di San Gaudenzio.

In piazza Giulio Cesare, ci sono anche due partigiani, Libero Angeli ed Augusto cavalli.
La sera prima sono venuti a sapere da un milite repubblichino, della sentenza di morte. Decidono di «assistere alla macabra esecuzione come atto di solidarietà e conforto con le vittime».
Angeli racconta: «Affaccendati attorno ala forca una ventina di mongoli attorniati da una quindicina di tedeschi. Confuso tra questi un italiano a capo scoperto», con indosso una tuta blu. Era il comandante del reparto repubblichino acquartierato alle Grazie.

Angeli descrive l'esecuzione. Capelli al centro, altero. Nicolò e Pagliarani ai lati, un po' abbattuti». I loro corpi sono segnati da ecchimosi. «Nessuna lacrima rigava il loro volto, non un lamento, non un sospiro è uscito dalle loro labbra».
Il Comando tedesco voleva che quei corpi restassero esposti per tre giorni. Il Commissario prefettizio Ugo Ughi non obbedisce. Dopo un solo giorno li fa riporre in cofani funebri a spese del Comune, e li fa trasportare al cimitero coll'auto funebre, e non su un carro qualunque, come avevano imposto i nazisti.

«Benché spietatamente torturati, non uno di loro si lasciò sfuggire di bocca neppure mezzo nome», ricorderò Guido Nozzoli: «Come non pensare che questi anni della nostra vita, vissuta dopo di loro, sono anche un loro dono?».
Nel pomeriggio del 17 agosto, avviene il trasporto delle tre salme al cimitero, dove possono essere sepolte, a causa dei continui allarmi, soltanto nella mattinata del 18 agosto.
All'alba dello stesso giorno, Augusto Cavalli vede transitare per la strada di San Marino un carro scortato da alcuni soldati tedeschi, «seguìto a piedi da Leo, il delatore, e sopra il figlio, la moglie e poche masserizie». È sempre Libero Angeli a parlare: Leone Celli veniva portato al Nord, «lontano da una possibile punizione partigiana».

Verso il Nord, alla fine di agosto, va anche Paolo Tacchi, in compagnia di altri fascisti e della propria amante Bianca Rosa Succi, cassiera del fascio. Ha con sé sei milioni di lire. Dopo la Liberazione è arrestato a Como. Lo annuncia il «Giornale di Rimini» dell'8 luglio 1945.
È catturato «per collaborazionismo e per aver determinato l'omicidio per impiccagione» dei Tre Martiri.
Da Como, Tacchi è tradotto a Padova ed a Forlì. «Il giorno di Natale ho mangiato quello che mi hanno offerto i partigiani di Rimini che erano in carcere a Forlì compresi alcuni della stessa Gap alla quale appartenevano i tre giustiziati dai Tedeschi», scriverà Tacchi per discolparsi della tremenda accusa.
A Forlì, è imputato fra l’altro anche per l’uccisione di partigiani e di renitenti alla leva, oltre alla «responsabilità presunta» nell’impiccagione dei Tre Martiri.

Il 9 gennaio 1946, comincia il primo processo, conclusosi con la condanna a morte di Tacchi, mediante fucilazione alla schiena. I coimputati Mario Mosca, Giuffrida Platania e Valerio Lancia sono condannati a 25 anni, i primi due, ed a 17 anni il terzo.
In questo processo, la Succi parla di Tacchi come di «un fascista fanatico ed ambizioso, responsabile ed organizzatore di tutti i rastrellamenti nel Riminese».
La condanna di Tacchi è annullata nel dicembre 1946 dalla Cassazione, per mancanza di motivazione: la corte popolare si sarebbe fatta influenzare dalla bramosia di vendetta provocata dall’«odio attiratosi allora dal Tacchi».
Per Mosca, Platania e Lancia, la Cassazione applica l’amnistia. Tacchi viene rinviato a giudizio in ambiente più sereno.
A Roma, il 28 maggio 1947, Tacchi è condannato a trent’anni. Pure questo verdetto è annullato dalla Cassazione, per difetto di motivazione. In altri due successivi processi, Tacchi è assolto dalla stessa Cassazione nel 1949, per non avere commesso i fatti. Era stato per 38 mesi nel penitenziario di Procida. Non tornò a Rimini, morirà a Senigallia nel 1971.

Il 16 marzo 1946, il secondo anniversario della morte dei Tre Martiri è ricordato con una Messa al campo nella piazza Giulio Cesare, celebrata dal Vescovo di Rimini, mons. Luigi Santa. Il periodico dc «L’Ausa» definisce i Tre Martiri «simbolo del nostro riscatto».
Il primo novembre 1946, alla prima seduta del Consiglio comunale appena eletto, si discute sui nomi da cambiare a strade e piazze. Ai tre giovani è dedicata la memoria del luogo dove la barbarie della guerra civile aveva avuto il sopravvento.

Bibliografia.
O. Cavallari, Bandiera rossa la trionferà, Rimini 1979.
B. Ghigi (a cura di), La guerra a Rimini… Documenti e testimonianze, Ghigi, Rimini 1980.
N. Matteini, Rimini negli ultimi due secoli Maggioli, Rimini 1977.
A. Montemaggi, vedi gli articoli del «Carlino» del 12.8 e 15.8.1984, ora raccolti in volume presso la Biblioteca Gambalunga di Rimini.
U. Ughi, Memorie, in «Storie e storia», n. 4, 1980.


Antonio Montanari

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