4. Aurelio Bertòla, alla ricerca di una vita nascosta
All'inizio di quel suo libro fondamentale (e non soltanto per gli studi serriani) che è «Il lettore di provincia» (1964), Ezio Raimondi riportava una paginetta del critico cesenate in cui si affronta il tema della «maschera dello scrittore» (nello specifico Kipling), e della «figura» che questi prende in pubblico. L'osservazione di Serra, al di là delle implicazioni autobiografiche per il bibliotecario malatestiano che Raimondi individua nel suo presentarsi come «lettore dilettante», può essere utile quale avvertenza metodologica per affrontare un poeta settecentesco, di cui ricorre quest'anno il bicentenario della morte, Aurelio De' Giorgi Bertòla. Il quale era nato nel 1753 a Rimini, dove si spense dopo aver girato l'Italia e l'Europa con un'inquietudine che lo ha fatto apparire la tiepida incarnazione di umori preromantici, soprattutto per il «Viaggio sul Reno» (1795), divenuto una specie di vademecum per i giovani non ancora diversamente turbati dalle accese pagine dell'«Ortis».
Il tema della «maschera» si applica perfettamente a Bertòla, la cui dimensione letteraria spazia su vari registri che potrebbero apparire ai nostri occhi, senza malizia, in evidente contrasto fra loro. Basti soltanto ricordare l'esperienza del debutto con le tre «Notti» composte fra '74 e '75 in morte di papa Clemente XIV, alle quali tiene dietro nel '76 il libretto erotico di «Versi e prose».
Questo contrasto (che forse è superfluo definire apparente, essendo il suo modo di celarsi esso stesso una rivelazione), questo contrasto è soltanto uno dei tanti che caratterizzano una persona la quale ebbe come unica vocazione la poesia, ma che fu costretta a quindici anni ad un forzato ingresso in monastero: per quanto fossero libertini quei tempi, il suo stato religioso non poteva non essere in contraddizione con una sensualità accesa, insaziabile, a tratti violenta, manifestata tra i plausi dei salotti e delle dame, ritrose per gioco ed accondiscendenti con le mille giustificazioni che cultura, filosofia e costumanze fornivano loro senza limiti. Dame il cui consenso rendeva Bertòla convinto del suo procedere secondo natura alla ricerca di quella «voluttà» da lui teorizzata quale idolo e scopo della vita umana.
In questa dissipazione, come lui stesso la chiama, Bertòla ad un certo punto si convince che deve mutare la sua immagine pubblica, e confida in un'epistola all'abate Giancristofano Amaduzzi, ricercato ed inascoltato maestro di bon ton esistenziale, che gli nuoceva «esser poeta» (1779). Eccolo allora, Bertòla, mimetizzarsi nei panni austeri del pensatore che si applica alla stesura della «Filosofia della Storia» (1787), le cui modalità stilistiche così opposte a quelle del prosatore elegante e affascinante che era, ci indicano tutta la tensione che lo sforza ad abbandonare l'istinto letterario suo proprio, ed a recitare una parte saccente e noiosa, grazie alla quale sperava di guadagnare i conforti di potenti protettori.
Ad un certo punto, non per conversione, ma per insensibile adeguamento a quello che M. A. Macciocchi nella recente biografia di Luisa Sanfelice chiama un «vezzo di gran moda» tra gli intellettuali dell'epoca, sposa le tesi filantropiche degli «illuminati» massonici, esibendosi in un ruolo utile alla carriera ma non corrispondente alle sue condizioni psicologiche: le certezze che egli esibisce in molte pagine (prese a modello per dimostrare una sua precisa scelta ideologica), nascondono le inquietudini dolorose che ancor oggi feriscono il lettore del suo epistolario. Costretto a mendicare aiuti da Roma e contemporaneamente dai francesi, come risulta da tante sue pagine inedite, mentre lavora come giornalista per la (presunta) rivoluzione, progetta di fuggire non fra le braccia di Napoleone, ma a Vienna, dal nemico dei soldati repubblicani.
Bisognerà che anche per Bertòla un giorno si compili una veritiera biografia critica, in cui la sua produzione intellettuale venga letta non solamente attraverso le coordinate della cultura settecentesca, ma pure attraverso questo suo continuo oscillare psicologico tra verità esistenziale e «figura» letteraria, evitando ogni preconcetto moralistico e tentando di coglierne il vero significato: le sue contraddizioni lo perseguitarono fino alla morte, quando le esequie furono non un omaggio pubblico alla grandezza del suo genio, ma una cerimonia rapida e nascosta per non celebrare le glorie mondane di chi veniva reputato un nemico della Chiesa. (E che della sua tomba, nel Tempio Malatestiano di Rimini, oggi nulla si sappia, pare quasi un particolare simbolico della dimenticanza che avvolge la vera storia della vita di Bertòla.)
Appendice 2016
1. Autentici, non apocrifi. Curradi, 1990.
Currado Curradi nel 1990 osservava che certi diplomi del XII sec. «sarebbero molto importanti se fossero autentici; la critica storica, però, li considera apocrifi».
A sostegno della sua osservazione, Curradi non presentava alcun rinvio alle fonti della cosiddetta «critica storica».
Dobbiamo pertanto accontentarci di quanto scriveva al proposito Luigi Tonini nel secondo volume della «Storia di Rimini» («Rimini dal principio dell'era volgare all'anno MCC», Rimini 1856), alla p. 578: il diploma di Federico I (1157), scoperto dal Garampi e poi pubblicato dall'Olivieri e F. G. Battaglini, su comunicazione di G. Marini (come si legge a p. 38 delle «Memorie sulla zecca di Rimini» di Battaglini, Bologna 1778), fu da Marini e Battaglini considerato «autentico».
Per il diploma del 1167, Luigi Tonini (p. 363) scrive: «Fu dubitato sulla sincerità» del documento, «per non essere esatto in ogni sua parte»: «Tuttavia, come osservò il Cardinal Garampi, può sanarsi pure in più luoghi: onde vedi le Note, che vi abbiam posto in calce» (alle pp. 585-586), con rimandi a testi analoghi presenti nel Muratori.
Tonini rinvia anche alle risposte di Battaglini («Memorie sulla zecca di Rimini», pp. 42-44) ad Olivieri (il quale costituisce forse quella «critica storica» assunta da Curradi come verità).
Morale della favola: Garampi e Battaglini sono per la veridicità del documento, contro il solo Olivieri («Memorie di Gradara», Gavelli, Pesaro 1775, p. 12).
Possiamo chiudere con un sorriso avvicinandoci a tempi più recenti rispetto a Curradi (1990): un celebre studioso ha negato la verità dei documenti del 1157 e del 1167 invocando lo stesso Curradi, mentre i dubbi dell'Olivieri erano relativi soltanto al secondo del 1167...
Appendice 2016
2. Una tomba al Tempio malatestiano.
Risale al 1515 il ritrovamento nel Tempio malatestiano di un panno mortuario all'interno di una tomba, che recava il nome di Federico II e la data del 1231.
La notizia è in C. Clementini, «Raccolto istorico», Simbeni, Rimini 1617, II, p. 664 ed è ripresa da Luigi Tonini («Rimini dal 1500 al 1800», VI, I, Danesi Rimini 1887, p. 141): «fabbricandosi nella Cattedrale la Cappella dell'Immacolata [...] fu trovata dentro l'antico muro della Chiesa una Donna morta, e avvolta in un regio panno di sera rossa, lungo braccia sei, ripieno di rosoni d'oro e di leone pur essi d'oro, e con altri ornamenti; ma quello ch'era il più con lettere, delle quali non altro più si leggeva che 'Fridericus Imp. Aug. MCCXXXI'».
Da Clementini la notizia è passata poi in Giuseppe Cappelletti («Le Chiese d'Italia», II, Antonelli, Venezia, 1844, p. 418), e non in altri storici locali, se non andiamo errati.
Orbene, questa notizia non sembra così ininfluente, circa la storia medievale di Rimini, da poter esser lasciata nascosta nel dimenticatoio. Ma come lavorano i nostri storici ufficiali (ovvero quelli che hanno la licenza di scrivere e criticare)?
Questo tema si trova sviluppato in un articolo del 2013, a firma Lena Vanzi, "1231, Federico II e gli elefanti. L'affascinante ricerca delle fonti storiche a conferma della lapide di San Martino". ["il Ponte", n. 9, 03.03.2013]. Eccolo integralmente riprodotto.
Nel 1516 la cattedrale di Santa Colomba, nella cappella della Madonna Incoronata, restituisce il corpo di una donna, avvolto in un prezioso panno. Nel quale si legge soltanto il nome di Federico imperatore ed una data, 1231. La prima notizia sul panno è pubblicata da Raffaele Adimari nel "Sito Riminese" (Brescia, 1616, p. 59). Nella cattedrale, egli precisa, "vi è un drappo antichissimo di seta [...] che si vede esser stato fatto nel Anno M.CCXXXI. il qual fù trouato in un'arca di Marmo [...] il qual dicono, che fù posto in quel luoco da Federico II. Imperatore, inuolgendoli dentro una sua Figliuola morta".
Nel "Raccolto istorico" di Cesare Clementini (Rimini, II, 1627, p. 664), troviamo più particolari: "fabbricandosi nella Cattedrale la Capella chiamata l'Incoronata, hora di San Gioseffo, [...] dentro l'antico muro della Chiesa, fu trovato una Donna morta, e avolta in un regio panno di seta rossa, lungo braccia sei, ripieno di Rosoni d'oro, e di Leoni, fatti a basso rilievo parimente d'oro, che sostengono un gran fiore, attorniato con certi circoli, in mezzo a quali stanno alcune lettere, che per esserne una parte corrosa, altro non si legge, che FRIDERICUS Imp. Aug. MCCXXXI".
La "morta Donna"
La pagina di Clementini prosegue con l'ipotesi circa l'identità della "morta Donna". Secondo alcuni è una Baronessa, secondo altri una Nipote di Federico II. Adimari, come abbiamo visto, invece parla di una Figliuola dell'imperatore: la sua fonte è un trattato sul vermicello della seta (Rimini, 1581) composto da Giovanni Andrea Corsucci da Sassocorvaro, già rettore di San Giorgio Antico e Maestro comunale. Corsucci annota pure che ai suoi tempi l'antico panno funebre era ancora fresco e bello, e che se ne serviva il Capitolo della Cattedrale per il cataletto nei mortorii di Vescovi e Canonici, nel portarli alla sepoltura.
Chi può essere la Donna morta? Il padre di Federico II, Enrico VI, ha un fratello Ottone II che da Margherita di Blois genera Beatrice di Borgogna, moglie di Ottone il Grande. Questa Beatrice scompare proprio nel 1231, il 7 maggio, l'anno del funerale riminese. Ma si trova poi che essa è sepolta dal dicembre dello stesso 1231 nell'abbazia di Langheim a Bamberg. Quindi sarebbe da escludere che sia suo il corpo ritrovato nel 1516.
Beatrice era un personaggio troppo importante per essere eventualmente lasciata lontana dalla propria patria. La presenza di Beatrice in Romagna non sarebbe strana. Basti ricordare quanto scrive Carlo Sigonio (1520/23-1584) nel XVII libro della sua storia del Regno d'Italia (1591): Federico II chiamò dalla Germania in Romagna il figlio Enrico ed i suoi principi. Tra costoro c'è pure il marito di Beatrice, Ottone I d'Andechs e di Merania.
Feste per tutti
Sigonio aggiunge: Federico II, per non intimorire la gente con parate militari anzi per allietarla e divertirla, organizza una sfilata di animali mai visti o poco noti da queste parti. Sono appunto gli elefanti, leoni, leopardi, cammelli ed uccelli rapaci che per molti giorni offrono meraviglioso spettacolo e che finiscono citati nella lapide ritrovata a San Martino in Venti (1973-74), come ha raccontato Anna Falcioni in un testo edito da Bruno Ghigi nel 1997.
Sul Ponte (4.5.2008) lo ha presentato Angela De Rubeis: "Mentre si lavorava all'abbattimento di un circolo ACLI che nel dopoguerra era stato costruito con le macerie lasciate sul campo dai tanti bombardamenti, si scopre quella lapide che il parroco don Lazzaro Raschi conserva indagando sulla sua antica collocazione. Trova così che prima degli anni '40 essa "era posta, e ammirata dai fedeli, sotto l'altare maggiore" della sua chiesa, in quanto considerata una pietra sacra.
Nell'articolo si ricorda la serie degli studi per "leggere" quella pietra, iniziati da Augusto Campana, proseguiti da Gina Fasoli e completati da Aurelio Roncaglia (1982) con questa traduzione: "Nell'anno del Signore 1231, sotto il papato di Gregorio e l'impero di Federico [...] al tempo in cui l'imperatore Federico venne a Rimini e condusse con sé elefanti, cammelli e altri mirabili animali, quest'opera fu fatta e completata".
Mainardino, la fonte
Il passo di Carlo Sigonio fu riproposto da Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) negli "Annali" (VII, Napoli, 1773, p. 209) senza la precisazione della fonte: "l'avrà preso da qualche vecchia Storia. Cioè, che Federigo diede un singolare spasso a i popoli in Ravenna, coll'aver condotto seco un liofante, de i leoni, de' leopardi, de' cammelli, e degli uccelli stranieri, che siccome cose rare in Italia, furono lo stupore di tutti".
La fonte di Sigonio è Mainardino Imolese, come si legge in una nota dei "Monumenta Germaniae Historica" (tomo XXXII, dedicato alle cronache di Salimbene de Adam [1221-1287], 1905-1913, p. 93). La testimonianza di Mainardino è relativa proprio a Ravenna tra 1231 e 1232. Mainardino scrive che vide l'imperatore condurre seco "molti animali insueti in Italia: elephanti, dromedarii, cameli, panthere, gerfalchi, leoni, leopardi e falconi bianchi e alochi barbati".
Mainardino è stato definito "uno storico dimenticato del tempo di Federico II" (P. Scheffer-Boichorst, "Zur Geschichte des XII. und XIII. Jahrhunderts Diplomatische Forschungen", Berlino, 1897, p. 275). Un'altra citazione da Mainardino, è in un testo di Pandolfo Collenuccio (1444-1504) di Pesaro, "Compendio delle historie del regno di Napoli", Venezia, 1541 (quindi anteriore a Sigonio), p. 80bis: Federico nel novembre 1232 arriva a Ravenna "con grandissima comitiua, e magnificentia, e tra le altre cose menò con sé molti animali insueti in Italia", di cui fa l'elenco che abbiamo appena letto, "e molte altre cose degne di admiratione, e di spettaculo". Nello studio di Scheffer-Boichorst si legge infine (p. 282) che spesso Collenuccio, nell'enumerazione degli animali, coincide con Flavio Biondo.
Flavio Biondo
Ecco che cosa si legge in Flavio Biondo: "Mentre che era Federigo in Vittoria [Sicilia], gli uennero ambasciatori di Aphrica, di Asia, e de lo Egitto; e portarongli a donare Elephanti, Pantere, Dromedarij, Pardi, Orsi bianchi, Leoni, Linci, e Gofi barbati: egli si edificò qui Federigo bellissimi giardini, e serragli; dove teneua bellissime fanciulle; e lascivi garzoni" (Le Historie del Biondo..., Ridotte in Compendio da Papa Pio [II]; e tradotte per Lucio Fauno, Venezia, 1543, p. 172 retro).
Su Mainardino, scrive Augusto Torre (Enciclopedia Dantesca, Roma, 1970): "Vescovo di Imola, della famiglia Aldigeri di Ferrara (dalla quale si pensa derivasse la moglie di Cacciaguida), figlio e fratello di due giudici famosi, fu uno dei più insigni personaggi del suo tempo. Suddiacono e preposito della cattedrale di Ferrara sin dal 1195, il 16 agosto 1207 era già vescovo di Imola. La sua attività si svolse sia nel campo spirituale come in quello temporale, e ne rivelò le spiccate capacità politiche. Fu podestà di Imola (1209-10 e 1221-22), che difese saldamente contro i ripetuti attacchi di Bologna e di Faenza. Per molto tempo lo troviamo vicino a Federico II e ai suoi legati; fu anche vicario imperiale e in questa qualità risolse con grande energia le contese fra Genova e Alba (1226), ma dal 1233 si tenne lontano dalla politica attiva. Il 9 agosto 1249 troviamo già eletto il suo successore; ignoriamo l'anno della sua morte, avvenuta dopo quella data. Scrisse una storia di Imola e una biografia di Federico II, entrambe andate perdute". Nella "Storia dell'Emilia Romagna" (I, 1976, p. 685) Augusto Vasina sottolinea: Mainardinus ebbe una "prepotente vocazione politica filoimperiale".
Nel marzo 1226 da Rimini Federico II ha promulgato la sua Bolla d'oro per confermare la donazione della Prussia all'Ordine Teutonico. La ricorda una lapide (1994) in piazza Cavour, proposta dallo storico Amedeo Montemaggi.