Carte parlanti
Vecchie storie, nuove notizie [2009]


Cap. 1. Iano Planco e Galileo
Cap. 2. La pietra dello scandalo
Cap. 3. Carlo Tonini inventa il tumulto ebraico del 1515

A mo' di premessa
Nella nostra città fortunatamente si scrive parecchio di Storia, ma purtroppo non si fa nulla per far apprendere come si leggono le carte, per poterne poi ragionare.
Per mettere a disposizione di tutti il materiale esaminato nel corso di mezzo secolo esatto di letture e studi, avvio questa serie di pagine web che ho intitolato "Carte parlanti".
L'unico criterio che sarà utilizzato è quello concreto, immediatamente percepibile e verificabile, della lettura di documenti originali. Alla lettura seguirà l'esame degli aspetti che ne conseguono.


Cap. 1. Iano Planco e Galileo

Uno dei riminesi più famosi nel mondo, il medico e scienziato settecentesco Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775), rimprovera ai colleghi di Siena (dove insegna Anatomia dal 1741 al 1744) di insegnare una «anatomia cartacea».
Per comprendere il significato dell'aggettivo, è necessario risalire al discorso galileiano che ci rimanda ad una «astronomia cartacea». Ovvero astratta, lontana dalla «sensata esperienza», e basata soltanto sulla conoscenza dei libri degli antichi e sulle «ragioni d'Aristotile».
La lezione galileiana in Bianchi torna in una lettera che il medico scrive a Muratori: «Io vorrei che i giovani, fino che sono in una certa età, non si divagassero tanto nella lettura di molti libri, ma vorrei che, avendo coltivato lo studio delle lingue erudite, cioè della greca, della latina e anche della nostra vulgare, stassero intenti a studiare unicamente per alcuni anni il bel libro della natura, i cui caratteri sono gli angoli, i triangoli, i quadrati, i circoli, le ellissi, i coni, i cubi, i cilindri e l'altre figure tutte, sì piane che solide. Con questo abecedario e con gli esperimenti e con le osservazioni prese dalla notomia, dalla buona chimica, dalla astronomia e da tutte l'altre arti utili al genere umano, si pongono certi fondamenti per le scienze tutte, senza de' quali è vano ogni nostro sapere [...]».
Uno dei più celebri allievi di Bianchi, il filosofo savignanese Giovanni Cristofano Amaduzzi (1740-1792) porta un fondamentale contributo alla conoscenza del «modus operandi »intellettuale del maestro.
Per comprendere l'accusa di «anatomia cartacea» rivolta da Bianchi ai propri colleghi senesi, ci è utile ricordare l'episodio relativo alla questione della inoculazione del vaiolo.
A cui Planco è dapprima contrario, come dimostra un suo scritto contro il quale si scaglia Pietro Verri. Ed a cui invece si rivolge con atteggiamento opposto, proprio come soltanto Amaduzzi poteva conoscere, e ci ha testimoniato.
Il sapere sperimentale di Bianchi è dapprima condizionato da un errore epistemologico che rispecchia l'esperienza culturale del primo Settecento.
Questo errore di valutazione è documentabile con una lettera dello stesso Bianchi a Giovanni Lami. Dove «la quistione dell'innoculazione» è inserita tra le «cose letterarie» da discutere, magari nel «miglior latino», con il quale mandare «al diavolo tutti i pretesi calcoli [...] e tutte le altre ragioni sofistiche de' fautori dell'innoculazione, giacché tutti costoro non sono filosofi e meno medici, ma sono sfaccendati [...]».
Amaduzzi scrive che Planco cede «in appresso all'evidenza del buon esito» dell'innesto del vaiolo, «con quel candore, e coraggio, che suole ispirare l'amore della verità nei cuori degli uomini grandi».
Bianchi così applica su se stesso quel metodo scientifico "moderno" che lo fa ricredere delle proprie opinioni espresse a proposito della inoculazione del vaiolo.
L'errore epistemologico di cui si è detto, è un tema importante per comprendere non soltanto la biografia intellettuale dello scienziato riminese, ma pure il processo culturale di trasformazione delle conoscenze scientifiche nel corso del Settecento europeo.
Quell'errore è spiegabile anche (ma non direi soprattutto) con le ragioni personali narrateci da Amaduzzi nel ritratto che pubblica sull'«Antologia romana» alla morte del maestro: «Fu egli uomo dotato di un vasto talento», scrisse il savignanese, «di memoria sorprendente, e di una somma diligenza. Mancò d'un certo criterio, per il che fu soggetto talvolta a qualche paralogismo».
Ma proprio quel suo «qualche paralogismo» ci obbliga a considerare la conoscenza scientifica come un cammino non lineare, bensì pieno di ostacoli e contraddizioni.



Cap. 2. La pietra dello scandalo

Il titolo di questo paragrafo è ironico. Ricordo un vecchio detto, «Soltanto le persone serie possono permettersi di scherzare». Grazie ad esso spiegavo impunemente ai miei alunni che il famoso verso dantesco «I' son Beatrice che ti faccio andare» (Inferno, II, 70), non era lo slogan di un purgante medievale.
La «pietra dello scandalo» a cui alludo, è una lapide del 1490 che era posta nell'antico convento di San Francesco a fianco del tempio malatestiano di Rimini. E che oggi si trova nel Museo della città.
Per spiegare la questione, spero altrettanto impunemente, occorre fare un passo indietro, come in tutte le storie che si rispettino.
Dunque, nel convento riminese sorge a metà Quattrocento la prima biblioteca pubblica italiana e la prima biblioteca Malatestiana della Romagna, madre ideale di quella cesenate tuttora gloriosamente esistente. Mentre la nostra è da tempo scomparsa e dimenticata.
La Malatestiana di Rimini è ideata da Carlo Malatesti (1368-1429), signore di Rimini e rettore vicario della Romagna dal 1385. È progettata nel 1430 da Galeotto Roberto «ad comunem usum pauperum et aliorum studentium». I primi lavori nel convento per la sua realizzazione sono registrati nel 1432. Essa è poi arricchita da Sigismondo Pandolfo.
Nel 1455 possiede «plurima denique sacrorum ethnicorumque librorum ac omium optimarum artium volumina», donati appunto da Sigismondo e procurati dai suoi uomini di corte, fra cui Roberto Valturio (da cui è presa la citazione). Sono testi latini, greci, ebraici, caldei ed arabi, tracce del progetto di Sigismondo per diffondere una conoscenza di tutte le voci, da Aristotele a Cicerone, da Aulo Gellio al Lucrezio del De rerum natura, da Seneca a sant'Agostino, sino a Diogene Laerzio ed alle sue Vitae degli antichi filosofi.
Nel 1475 Roberto Valturio lascia la propria biblioteca alla «liberaria» (libreria) del convento dei frati di San Francesco di Rimini «ad usum studentium et aliorum fratrum et hominum civitatis Arimini», con la clausola che i frati facciano edificare «unan aliam liberariam in solario desuper actam ad dictum usum liberarie».
La «liberaria» giaceva «in piano a terra pregiudicevole a materiali sì fatti», come scrive Angelo Battaglini nel 1792 nella Corte letteraria di Sigismondo Pandolfo Malatesta (p. 168). Il trasporto al piano superiore avviene nel 1490: lo testimonia appunto la lapide di cui stiamo trattando.
Dell'iscrizione della lapide non è stata mai fornita sinora la corretta trascrizione. Infatti si è letto come «sum» quanto invece va trascritto (cioè «sciolto») come «summa». Lo «scandalo» di cui scherzosamente s'è detto, è tutto qui.
Il testo latino è questo: «Principe Pandulpho. Malatestae sanguine cretus, dum Galaotus erat spes patriaeque pater. Divi eloqui interpres, Baiote Ioannes, summa tua cura sita hoc biblioteca loco. 1490».
Ovvero: «Sotto il principato di Pandolfo. Mentre Galeotto, nato dal sangue di Malatesta, era speranza e padre della Patria. Per tua somma cura, Giovanni Baioti teologo, la biblioteca è stata posta in questo luogo. 1490».
In un primo tempo la data «1490» fu letta «1420». Poi ci si accorse che i conti non tornavano, grazie al ricordato documento del 1430.
Un cenno alle persone nominate nell'iscrizione. Pandolfo IV, 1475-1534, è figlio di Roberto Novello (1442-1482), a sua volta figlio di Sigismondo (1417-68).
Roberto è morto combattendo al servizio della Chiesa. Con lui era Raimondo Malatesti (figlio di Almerico Malatesta e di Amabilia Castracani) che reca a Rimini la notizia della morte del signore della città.
Galeotto [Galeotto II Lodovico], figlio di Almerico Malatesta (e quindi fratello di Raimondo), è tutore di Pandolfo e governatore di Rimini.
Giovanni Baiotti da Lugo, frate francescano, è teologo e padre guardiano del convento di San Francesco.
Il testo, da metà Settecento in avanti, è sempre stato trascritto infedelmente. Con quel «sum» (che non dice nulla) al posto del più semplice, ovvio e corretto «summa» che è l'aggettivo da legare a «cura».
L'errata trascrizione, anziché far leggere «Per tua somma cura, Giovanni Baioti teologo, la biblioteca è stata posta in questo luogo», suggeriva una castronata pazzesca per non usare il termine fantozziano originale (che non stonerebbe affatto per rispetto delle questioni filologiche di cui discorriamo): «Per tua cura, Giovanni Baioti teologo, sono la biblioteca posta in questo luogo...». Il che è proprio un bel latino maccheronico nonostante il placet di autorevolissimi ed eccelsi studiosi.
La prima trascrizione (di metà Settecento) è dovuta al padre Francesco Antonio Righini, «procuratore» dello stesso convento dei Padri Conventuali di San Francesco di Rimini. Il cui nome è rimasto legato ad un'altra faccenda malatestiana, la prima ricognizione della tomba di Sigismondo nel 1756 (21 agosto), assieme all'ispezione di tutti i sepolcri malatestiani di San Francesco (15 agosto).
Le «Novelle letterarie» di Firenze (n. 17/1757) lo descrivono quale «uomo non letterato», ma comunque di «buon genio per le cose spettanti all'erudizione del suo Convento», e «tutto intento da molte pergamene di trarre materia da poter tessere una storia della sua Chiesa e del suo Convento».
Sul «procuratore» di San Francesco, è meno tenero il giudizio di uno studioso contemporaneo che, a proposito della vicenda medievale della beata Chiara da Rimini, lo definisce «un falsario». Richiamando i passi appena citati dalle «Novelle letterarie» (n. 17/1757), Jacques Dalarun in un suo recente volume, «Santa e ribelle» (Laterza, 2000), scrive: «Esiste modo più chiaro per rimetterlo al suo posto, quello di erudito locale, autodidatta in perpetuo? Oggi considerarlo un falsario è almeno un modo di parlarne ancora».
La colpa di padre Righini è d'aver imbrogliato le carte sulla storia della nostra beata, inventando la scoperta d'un manoscritto datato 1362 che la riguardava. Ma (spiega Dalarun), i raggi ultravioletti della lampada di Wood consentono di leggervi una data raschiata («14 agosto 1685») che svela il suo trucco.
Quel «sum tua cura» di padre Righini è sopravvissuto al logorio del tempo come inossidabile verità. Purtroppo. Mi auguro che non sia considerato un'offesa all'autorità costituita dimostrare che sia padre Righini sia i suoi successori nello studio di quella lapide, si sono beatamente sbagliati.


Cap. 3. Carlo Tonini inventa il tumulto ebraico del 1515

Carlo Tonini figlio pasticcione (non lo dico io, come vedremo) del grande Luigi, il primo storico moderno di Rimini, s'inventa per il 1515 un «tumulto per cagione degli Ebrei».
Nulla di vero. Non ci fu nessun tumulto «degli Ebrei», ma semmai «contro» di loro. La gente li considerava (scrive lo stesso CT), «quali nemici della Religione e promotori di scandali». («Ut inimicos» si legge nel verbale del Consiglio generale sotto la data del 13 aprile, dal quale CT attinge.)
Nel 1515 si vuol semplicemente far pagare alla comunità ebraica la spesa militare degli ultimi cinque anni, fatta però non per colpa sua. In quell'anno, come osserva lo stesso CT, «fra gli altri mali eravi quello, di tutti forse peggiore, della mancanza di pecunia». Su questi aspetti torniamo più avanti.
Per ora spieghiamo il perché di quel "pasticcione" attribuito a CT.
Leggiamo un passo di un illustre studioso, Luigi Dal Pane, tratto da un testo del 1932. Nel quale si parla dell'Annona di Rimini nel secolo XVIII. Il prof. Dal Pane osservava:
a) che fino ad allora (1932) la controversia era rimasta ignota in campo scientifico;
b) che non si potevano svolgere altre indagini per il «preclaro disordine» dell'Archivio comunale;
c) che gli «scrittori di storia riminese [...] vi accenarono da cronisti, e, come al solito, non cercarono di penetrarne l'intimo siginificato».
Il riferimento di Dal Pane è a Carlo Tonini che «copiò dal Giornale dello Zanotti non senza cambiare qualche frase e mutare la costruzione del periodo [...] per occultare» il plagio; e che «invece di chiarire le cose [...] le imbrogliò», per cui alla fine «certi passi che erano chiari e significativi nella prosa dello Zanotti, divennero oscuri e senza colore in quella del Tonini».
Ho avuto modo, recentemente, di osservare: «Mi è capitato di leggere in Gambalunghiana varie tesi di laurea, dove si riprendono testi diventati ormai classici, quali le cronache (1773-1829) del notaio Michel'Angelo Zanotti. Mai nessun docente universitario ha consigliato ai suoi studenti di porsi il problema di come considerare Zanotti, di capire l'ideologia che stava dietro alle sue pagine, la posizione politica che lo portava ad assumere certi atteggiamenti. Tutte le cronache di Zanotti sono state riversate da Carlo Tonini nell'aggiornamento della Storia di Rimini [vol. VI, I-II, Rimini 1887-88, ed. an. Rimini 1995] scritta da suo padre Luigi Tonini, senza sottoporle ad alcun vaglio critico. Anzi, peggiorando la scrittura originale, come denunciò il prof. Luigi Dal Pane, docente dell'Università di Bologna. Tempo fa, mentre stavo componendo una storia dell'Annona riminese nel 1700, poi pubblicata con il titolo de Il pane del povero in Romagna arte e storia (n. 56/1999, pp. 5-26), consultai un testo di Luigi Dal Pane del 1932, dove si dichiarano tre cose: che la controversia sull'Annona era rimasta ignota in campo scientifico; che non si potevano svolgere altre indagini per il "preclaro disordine" dell'Archivio comunale; e che gli "scrittori di storia riminese [...] vi accennarono da cronisti, e, come al solito, non cercarono di penetrarne l'intimo significato". Prosegue Dal Pane: Carlo Tonini "copiò dal Giornale dello Zanotti non senza cambiare qualche frase e mutare la costruzione del periodo [...] per occultare» il plagio: così, «invece di chiarire le cose [...] le imbrogliò", per cui alla fine "certi passi che erano chiari e significativi nella prosa dello Zanotti, divennero oscuri e senza colore in quella del Tonini"». (Cfr. A. MONTANARI, La Scienza illustrata, «Il Ponte», Rimini, 6 gennaio 2002.) Lo scritto di L. DAL PANE è Una controversia sull'Annona di Rimini nel secolo XVIII, «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie, XL (1932), III», pp. 327-345.
Il testo di Dal Pane non era mai stato "rispolverato" in sede locale non tanto per la questione che vi considera, quella dell'Annona settecentesca, quanto per le implicazioni di metodo di lettura dei testi (vedi Carlo Tonini) e delle fonti (come lo Zanotti di cui parla).
Zanotti è il più citato nelle tesi e nei testi "riminesi" relativi al Settecento, ma mai ci si è chiesti perché lui scriva quello che scrive, ovvero quale sia la sua "mentalità".
La quale aveva un'indubbia impronta codina, ed era più portata a credere nelle verità delle leggi e del potere che le incarnava, piuttosto che nel primato del divenire storico. Non per nulla, quando parla del popolo, Zanotti lo definisce «plebe ignorante».
Veniamo ai fatti del 1515. Riprendo un mio testo già presente sul web.
Nel 1515 succede l'episodio che meglio riassume i caratteri della questione ebraica a Rimini. Il 13 aprile 1515 il Consiglio generale della città prende atto che a Rimini gli ebrei sono visti «ut inimicos», ed approva all'unanimità tre provvedimenti:
1. chiedere licenza al papa di bandirli;
2. far loro pagare le spese per i soldati a piedi ed a cavallo «qui condotti, e trattenuti per guardia de gli Ebrei» medesimi;
3. stabilire «che nell'avvenire volendo detti Ebrei continuare l'habitatione in questa Città, portassero il capello, o la beretta gialla».
Gli ordini del segno distintivo restano disattesi se nel 1519, dietro istanza di frate Orso dei Minori di San Francesco, essi sono ripetuti, in obbedienza anche ai decreti del 1215.
Gli ebrei richiedono di non essere costretti alla berretta od alla benda gialle, ma di poter recare semplicemente un segnale sul mantello: la «rotella» di cui s'è detto. La città ricorre al papa, «da cui fu commandato, o che quelli partissero da Rimini, overo obbedissero alla Città» stessa.
I soldati usati nel 1515 «per guardia de gli Ebrei», sono forse parte dei 600 armati già impiegati nel 1510 per volere del papa, a causa di risse e disordini politici locali. Oppure sono i «nuovi fanti» giunti nel febbraio 1513 «per la custodia della città», afflitta da continue violenze. Oppure sono le guardie destinate frenare i «faziosi» del contado (maggio 1513), per le quali è creata una nuova tassa.
Carlo Tonini scrisse che nel 1515 Rimini «era in tumulto per cagione degli Ebrei». È un'affermazione priva di fondamento. Non ci fu nessun tumulto «degli Ebrei», ma semmai «contro» di loro. La gente li considerava (scrive Tonini), «quali nemici della Religione e promotori di scandali». («Ut inimicos» abbiamo letto nel verbale del Consiglio generale sotto la data del 13 aprile.)
Nel 1515 si vuol semplicemente far pagare alla comunità ebraica la spesa militare degli ultimi cinque anni, fatta però non per colpa sua. In quell'anno, come osserva lo stesso Carlo Tonini, «fra gli altri mali eravi quello, di tutti forse peggiore, della mancanza di pecunia».
La questione ebraica a Rimini nel 1515 si sovrappone perfettamente con il clima di guerra civile provocato, dopo la morte di Sigismondo Pandolfo Malatesti (1468), dalle due fazioni in lotta. Nel luglio 1512, con la vana speranza di pacificare la città, si sono istituiti i «signori Venti di Giustizia», attribuendogli «facoltà assoluta di punire, e condannare». Ma neppure essi, sul finire dello stesso 1512, hanno potuto evitare l'uccisione di Vincenzo Diotallevi. È uno dei tanti delitti politici che si susseguono dal 1470. Delitti che, come ha osservato Rosita Copioli, continueranno «a far colare sangue» per un secolo.
Antonio Montanari



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