Fuorisacco, 05.06.2015.  Anna Rosa Balducci, ARCHIVIO.
Dentro la tazzina. Un racconto di Anna Rosa Balducci, 2014

Le (presunte) maghe leggevano il futuro guardando ai fondi del caffè dentro la tazzina servita al cliente. Una (vera) scrittrice come Anna Rosa Balducci agita la sua penna dentro le tazzine da caffè per rileggere il passato.
È un testo appena pubblicato (in «Racconti emiliani», 4, Reggio Emilia 2013), dove incontriamo il bilancio di una vita che comincia con l’acquisto di un pacchetto di caffè di qualità mediocre, suggerito dal guizzo inatteso ed alla fine deludente, da parte dello “spiritello del risparmio”.
Messa sul fuoco la caffettiera con il contenuto di quel pacchetto, ne scappa fuori un liquido “orrendo, indigeribile”. Che costringe Anna Rosa a nascondere lo stesso pacchetto per qualche eventuale occasione di second’ordine, non in virtù di spilorceria congenita, ma per obbedire alle regole del ben vivere suggerite dalla cronaca.
La quale cronaca fa sapere che l’Europa vacilla. E se l’Europa vacilla, si può gettar via un pacchetto di caffè cattivissimo? Neppure per sogno, basta nasconderlo.
Lo sappiamo che fine fanno le cose nascoste, se debbono essere commestibili ed hanno una data di scadenza.
Senza data di scadenza sono invece i ricordi, soprattutto se girano graffiando nella mente di questa signora “classe cinquantadue” che di motivi per cui lamentarsi ne ha parecchi, con lo slogan felice che riassume però un bilancio collettivo: “Generazione di mezzo, né carne né pesce”.
Di tazzina in tazzina, si approda al bicchierino di plastica della macchinetta a scuola, dove la prof. Balducci insegna, vicino alla quale (macchinetta) “c’è sempre un piccolo manipolo di ragazzi che in qualche modo rimane complice”.
La felice idea narrativa di costruire il racconto tutt’attorno a questa specie di (inconsapevole, ma veritiero) centro del mondo, approda alla richiesta fatta ad un barista di “un caffè basso, ristretto, amaro, per questa classe cinquantadue”.
Lo sappiamo tutti che questi ricordi agitati da una penna dentro una tazzina, rischiano di diventare famosi, come pagine di storia di vita quotidiana. Non vanno mai a male.

La casa color grigioperla
2012. Nel suo blog, lo scorso giugno la scrittrice riminese Anna Rosa Balducci ha raccontato una scena inquietante vissuta in prima persona, con lei costretta ad intervenire presso una pattuglia di Polizia per evitare “un pestaggio in piena regola”.
C'è “un gazebo occupato nottetempo da giovani stranieri con sacchi di cianfrusaglie e forse oggetti personali”. C'è l'agente “nervoso, gonfio di muscoli, con una inquietante testa rasata” che inveisce contro di lei che protesta. C'è l'altro poliziotto “più calmo” che interviene e fa cessare l'azione.
Adesso lo stesso mondo doloroso dell'immigrazione, lo ritroviamo nell'ultima prova narrativa di Anna Rosa Balducci, “La casa color grigioperla” (Ed. Progetto Cultura, Roma).
Dove si racconta una storia d'ordinaria vita di quindici persone fuggite verso l'Europa per trovare salvezza e futuro: due donne e due uomini vecchi, “i quattro giovani, di cui uno più serio e distinto, l'altro che si intendeva legato alla donna più giovane, sicuramente lo sposo di lei”. E poi un'altra donna giovane e cinque bambini, due femmine e tre maschi.
L'esperienza narrativa di Anna Rosa Balducci sconvolge la trama con l'intervento di più narratori. C'è quello che racconta gli eventi da fuori, poi un uomo giovane che appartiene ai profughi, ed infine un bambino dello stesso gruppo di profughi.
L'autrice a metà del lavoro dialoga con “il solito osservatore” che parla di una storia noiosa, di retorica dei buoni sentimenti, e ricostruisce la trama nascosta degli antefatti, avviando una specie di labirinto narrativo che serve a testimoniare di un semplice fatto, ovvero della complessità delle vicende vissute da questi sconosciuti. Che agli occhi della gente appaiono soltanto dei soggetti pericolosi da cacciare dalla casa in cui hanno trovato rifugio. [09.09.2012]

La balena del 1943 a San Giuliano.
Debutto di Anna Rosa Balducci

Anna Rosa Balducci vara «La balena», un libro di racconti (Ponte Vecchio, Cesena) che hanno ampio riferimento alla storia novecentesca di Rimini, in quell'angolo fra terra e mare di San Giuliano da dove partono ricordi della sua famiglia e pennellate delle sue descrizioni.
Il volume è un debutto editoriale che raccoglie una lunga esperienza ed un tirocinio appassionato di scrittura, un suo «bisogno primario» come confida con la consueta timidezza, aggiungendo: «Barerei con me stessa se cercassi a questa mia attività giustificazioni di varia natura. Non posso fare a meno di scrivere, ora che ho compiuto cinquant'anni, così come quando ero adolescente, e la cosa poteva essere sospettata di intimismo consolatorio».
I racconti che compongono il volume (dedicato alla memoria del padre Guido, scomparso in aprile ad 82 anni), spiega, «sono legati tra di loro dal filo di appartenenza allo stesso territorio, quel tratto di città che va dal Ponte di Tiberio alla spiaggetta di San Giuliano a Mare».
La balena del titolo, è quella che approda alla riva di San Giuliano nell'aprile del 1943, un capodoglio naufragato su cui la gente inizia subito a fantasticare in tempi spaventosi, quelli della guerra che la Balducci sintetizza con efficacia nella trama del racconto il quale, commenta, «vuole essere un inno all'amore, alla storia della mia gente, dei miei vecchi, alla memoria ed alla fantasia che loro mi hanno lasciato».
Alla fine della «Balena», un vecchio ripete la solita cronaca del «quattroaprilequarantatré», raccontando di un piccolo Giannino che vide allora quel grosso corpo lucido che avanzava. Forse Giannino non è mai esistito scrive la Balducci: «anche questo è il bello del raccontare storie: che si può, così senza esagerare, dare qualche piccolo ritocco, per rendere più avvincente la trama, e insieme eleggere noi stessi a personaggi. Altrimenti, chi si ricorderebbe di noi?».
In questa conclusione, la Balducci fa consistere la sua poetica: partire dai fatti, legarsi ad essi per poi costruire l'invenzione letteraria che troviamo nella pagina compiuta. Dove lei dimostra una maturità espressiva ed un controllo dei mezzi narrativi che testimoniano la sua passione ed il suo autocontrollo che in certi momenti può essere anche eccessivo (all'inizio leggiamo: «La sfida che sto accettando è questa: scrivere qualcosa di 'storico'. Difficile, so che è difficile: ho giocato molto con la scrittura, ma questa sfida mi trova più irrigidita. La storia mi mette soggezione.»).
La vicenda della balena è talmente originale nella sua impostazione che potrebbe da sola reggere il peso di un intero romanzo: è una sfida che la Balducci potrebbe vincere con se stessa. Basta sapere aspettare che sulla pagina bianca approdi, in un misterioso momento, qualche altra immagine di luce o di ombra per dare corpo alle parole, ai pensieri. Come appunto quella balena del «quattroaprilequarantatré».

2003. Voci di pace a scuola, fra i ricordi di guerra.
Un'antologia curata da Anna Rosa Balducci
La scrittrice concittadina Anna Rosa Balducci, che insegna all'Istituto Marco Polo, ha curato una piccola ma preziosa antologia, intitolata «Schegge di guerra… Voci di pace…», a cui hanno collaborato anche gli allievi della sua scuola: sono loro i testi che occupano la prima parte del libro. Seguono brani ripresi da autori chiamati per convenzione classici (si parte da Plauto e si arriva a B. Brecht, passando attraverso il Ruzzante, Marinetti, Ungaretti, Quasimodo ed a contemporanei come M. Rigoni Stern e S. Benni). Poi incontriamo le voci che parlano della «sfida della pace» (Leopardi, M. L. King, papa Giovanni XXIII, don Milani, papa Wojtyla, S. Pertini). Infine ci sono «ospiti cittadini»: V. Giorgetti, O. Baldani, M. Ugolini, P. G. Franchini, N. Pazzini, A. Bellini.
Come può risultare dall'impianto con cui il volume è stato appassionatamente costruito, e dalle varie presenze di autori così diversi fra loro, questo libro gioca tutto il suo significato in una sfida pedagogica e culturale originale, così come sono nuovi i problemi storici che sono alla base della sua nascita. Finiti i tempi in cui, sino all'11 settembre 2001, si poteva predicare un'interpretazione della Storia, in cui tutto andava (quasi) bene per (quasi) tutti, sono arrivati i momenti in cui ognuno di noi si è trovato di fronte alla necessità di pronunciarsi circa i processi politici messi in atto per rispondere concretamente agli interrogativi che il terrorismo poneva in senso globale, cioè ad ogni popolo, ad ogni Stato, nessuno escluso, dividendo il mondo in opposte fazioni.
Dice bene l'arguta prefazione: «Al di là delle particolari convinzioni, ideologiche e politiche, personali e di gruppo, quello che risultava evidente nella coscienza collettiva [dopo l'11 settembre], era la percezione di un nodo epocale della storia dell'umanità, un punto di non ritorno, una ‘terra di nessuno' in cui ci si stava immettendo».
Ovviamente, quest'operazione culturale e pedagogica deve obbligarci a non richiedere a quegli studenti che hanno partecipato alla sperimentazione letteraria nient'altro che il senso della riflessione su temi che sono stati e saranno sempre più grandi di noi gente comune, e per i quali occorrono voci come quelle che poi arrivano nelle pagine seguenti, dove si raccontano la farsa e la tragedia della guerra, con uno scambio di territori che supera i confini delle definizioni letterarie. Come si può constatare in quella canzone in cui Bertolt Brecht parla di che cosa ricevette la donna del soldato dalla vecchia capitale Praga, da Varsavia, da Oslo, dalla ricca Rotterdam, da Brussels, da Parigi piena di luci, dalla vasta Russia: ricevette soltanto il velo vedovile per la cerimonia funebre.
La farsa, come non mai, racconta meglio di ogni altra forma il tormento e l'angoscia della vicenda storica, mentre le parole di Marinetti, con la futuristica descrizione della battaglia di Adrianopoli, descrivono ed illuminano il dramma di una generazione a cui lui stesso glorificava oscenamente la guerra come «sola igiene del mondo».
Due altre pagine meritano una segnalazione: il messaggio di Pertini agli italiani del 31 dicembre 1993 («E mentre si spendono miliardi per costruire questi ordigni di morte, 40 mila bambini muoiono di fame ogni giorno. Questa morte di innocenti pesa sulla coscienza di tutti gli uomini di Stato, quindi pesa anche sulla mia coscienza»), ed una poesia di Karol Wojtyla sull'uomo che in una fabbrica d'armi prepara minuscole viti, tormentandosi perché se non pecca, non influisce neppure: «Il mondo che io creo non è / buono / eppure non sono io che lo / rendo malvagio! / Ma questo basta?».
Approfitto di questa nota per segnalare, restando in argomento, l'ultimo numero (ottobre-novembre) di «Missioni Consolata» (Corso Ferrucci 14, 10138 Torino), rivista sempre interessante, dedicato al tema «La guerra. Le guerre. Viaggio in un mondo di conflitti. E di menzogne». L'editoriale di Benedetto Bellesi, intitolato «Non possiamo tacere», tra l'altro contiene questa riflessione da non dimenticare: «Le cause ultime di tante guerre e terrorismo sono povertà disuguaglianze, ingiustizie: mali di cui non possiamo lavarci le mani»


Antonio Montanari
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