Fuorisacco 2015

Antonio Montanari

Riletture mie e censure altrui.

Anche la Storia, intesa quale narrazione degli eventi, è soggetta (come tutto lo scibile umano) a riletture che ne mostrano crepe e sfocature nell'interpretazione del documenti.
Anche la Storia, al pari di tutte le vicende intellettuali, dev'essere rivisitata per colmare lacune, oppure per correggere errori derivanti da quelle crepe e sfocature. E soprattutto per interpretare certi eventi alla luce di nuovi documenti comparsi, o di diverse, originali letture di quelli esistenti.
Anche la Storia, come ogni altro fatto che inerisce alla cultura, è qualcosa di pubblico ammesso a revisione.
Anzi si potrebbe aggiungere che tale revisione sovente è obbligatoria al pari di quella delle autovetture, e non per spirito che si suole dire revisionistico, ma per l'elementare esigenza di far circolare opinioni non infondate, balorde o addirittura inventate (come dimostreremo più avanti).
Soltanto menti gloriosamente autoritarie possono definire «provocatore» chi presenta nuovi documenti che sconvolgono le narrazioni accreditate.
A me è capitato pubblicando il «Diario» inedito di Aurelio Bertola, importante soprattutto per il periodo che va dall'11 ottobre 1796 al 15 gennaio 1797.
Antonio Piromalli aveva sostenuto che per quel periodo «i documenti sono scarsi». Con il mio lavoro dimostravo il contrario, i documenti c'erano, e da tempo, e del tutto dimenticati o ignorati, nella Biblioteca civica di Rimini.
Piromalli mi gratificò con il termine di «provocatore» in un giornaletto laziale mezzo o del tutto massonico, informato da una spia locale, che era una collega di redazione al settimanale «il Ponte» di Rimini, molto ossequiosa e rispettosa dei cosiddetti galatei mondani. Grazie ai quali poté avviare alla carriera giornalistica la figlia.
Ma se una rondine non fa primavera, una spiata e la conseguente pubblica offesa non possono cancellare il dato oggettivo dell'esistenza di quel «Diario». Sul quale nessun illustre studioso mai aveva voluto gettare il suo pregiatissimo sguardo, dato il formato molto ridotto delle pagine bertoliane custodite a Rimini.
L'etichetta di «provocatore» mi aggrada assai, perché non mi piacciono i servitori inginocchiati davanti a qualsiasi tipo di potere, né sono devoto ai portavoce silenti, costretti ad ubbidir tacendo ed usi a tradir operando.
Proviamo a rileggere quattro notizie "dimenticate" dagli storici più recenti.

La prima riguarda «La morte violenta di Benno».
La seconda, «Rimini 1220».
La terza, «Ghigliottina per Bellagamba, 1854».
La quarta, «Aurelio Bertòla, alla ricerca di una vita nascosta».


1. La morte violenta di Benno
Nel 1965 Scevola Mariotti suggerisce di interpretare il noto componimento poetico di san Pier Damiani in ricordo ed onore di Benno in una maniera del tutto nuova.
Secondo questa originale lezione, Benno sarebbe stato vittima di un'azione violenta. Mariotti stesso avverte che la nuova lezione comporta conseguenze «di ordine storico».
Infatti, come scrivevo in una nota alla «Storia di Rimino dalle origini al 1832» di Antonio Bianchi, da me curata nel 1997 (cfr. p. 99), «il fatto va inquadrato in lotte precomunali nel corso delle quali egli sarebbe stato colpito per il ruolo di "pater patriae" che gli viene attribuito da Angelo Battaglini…».
In questa nota rimandavo ad un mio articolo pubblicato il 12 giugno 1983 sul settimanale riminese «il Ponte».
Nel primo volume della «Storia della Chiesa riminese» (2010) non si fa nessun cenno al lavoro di Scevola Mariotti ed alla conseguente rilettura della vicenda politica che ha al centro la morte violenta di Benno.
Nel secondo volume, dopo la pubblicazione di una mia lettera sul «Corriere di Romagna» (28.12.2010), invece se ne parla. Ma andiamo con ordine.

Documenti.
Pier Damiani e Benno, vicende politiche a Rimini a metà dell'XI secolo
[«IL PONTE», n. 22, 12 giugno 1983]
La famiglia riminese dei Bennoni fece a varie riprese donazioni a Pier Damiani, fondatore dell'abbazia di san Gregorio in Conca di Morciano.
Lettera Corriere di Romagna, 26.4.2007
I componenti della famiglia dei Bennoni sono citati ripetutamente ed in modo sparso sia nei documenti medievali sia in opere di studiosi riminesi del XVII e XVIII secolo. Il ruolo politico svolto dai Bennoni nel nostro territorio va collocato nel contesto "internazionale" che vede la rinascita economica, la crisi del sistema feudale e la riscossa spirituale della Chiesa.
La rinascita economica in sede locale è testimoniata dalla costruzione del nuovo porto del Marecchia (1059) e dall'allargamento della cinta muraria.
La crisi del sistema feudale è ravvisabile nella posizione di autonomia di Rimini nei confronti dell'arcivescovo di Ravenna al quale spettava, per volere degli imperatori tedeschi, una specie di principato ecclesiastico anche sulla nostra città.
Infine, la riscossa della Chiesa è attestata dalla fioritura di iniziative tra le quali va annoverata nel 1061 la fondazione, da parte di Pier Damiani, del monastero intitolato a san Gregorio e posto «nel territorio riminese, in località che è detta Morciano».
Sullo sfondo di tutte queste situazioni e vicende si colloca la storia della famiglia riminese dei Bennoni.
Il padre, Benno «venerabile figlio del fu Vitaliano Benno», era un grande feudatario, proprietario di vaste estensioni di terre.
Sua moglie Armingarda, «figlia del defunto illustre signore Tebaldo», gli aveva recato in dote altre proprietà fondiarie.
Dal loro matrimonio nacquero tre figli. Uno soltanto, Pietro Bennone, sopravvisse al padre.
I territori assoggettati al loro controllo o di loro proprietà s'estendevano tra Rimini, l'entroterra riminese e quello marchigiano.
Benno prima e poi Armingarda fecero donazioni a Pier Damiani per il monastero di san Gregorio, sorto così in terra appartenuta alla famiglia riminese.
Dagli atti, sappiamo che sia Benno sia Pietro Bennone, suo figlio, furono tra i cittadini nobili ed importanti, non soltanto grazie alla loro rilevanza economica bensì anche per la partecipazione alla vita pubblica della nostra città.
Quando Benno morì nel 1061, fu ricordato da Pier Damiani in un carme in sua memoria. In esso Benno è definito «onore del regno, e gloria della stirpe romana, padre della Patria, luce dell'Italia».
Nel tono di commossa esaltazione usato da Pier Damiani per commemorare l'amico scomparso, non c'era soltanto la gratitudine per la donazione ricevuta, bensì pure (e l'uso della definizione di «padre della Patria» lo conferma), la descrizione del ruolo politico e civile svolto da Benno in Rimini.
Padre della Patria o della città era chiamato il rappresentante della vita municipale che doveva vegliare alla difesa del Comune sotto il dominio della Chiesa romana. Era una figura ben distinta dal conte che era un delegato pontificio od imperiale.
Uomo giusto e pio, severo con gli oppositori ma dolce con gli indifesi, Benno è dato da Pier Damiani per ucciso nel corso di una «guerra»: «lui, per merito del quale fiorì la pace», fu forse vittima di una lotta sulla cui origine possono essere avanzate soltanto alcune ipotesi connesse al ruolo politico svolto dallo stesso Benno.
Uomo di fede e difensore degli interessi della Chiesa (altrimenti Pier Damiani non l'avrebbe glorificato), mentre la feudalità laica mirava ad una sostanziale autonomia politica ed aumentavano i sostenitori dell'indipendenza cittadina, Benno probabilmente non riuscì a pervenire ad una sintesi originale tra mondo laico ed ecclesiastico che potesse conciliare gli interessi «particulari» cioè cittadini con quelli della sede di Pietro. Per cui i riminesi possono aver visto in Benno un capo che finiva per essere più il rappresentante del pontefice (come il conte) che della loro comunità. E quindi possono aver cessato di considerarlo come un'espressione della giustizia e dell'equilibrio nei rapporti fra la città e Roma.
Nell'additarlo pubblicamente come un traditore, si sarebbe così cominciato a scrivere la sua condanna a morte. Portata ad esecuzione nell'anno stesso della fondazione del monastero di San Gregorio, il 1061.
Rimangono molti dubbi sulla figura e sull'opera di Benno, così come resta probabile il fatto che la sua vicenda possa rappresentare una tappa nella trasformazione della realtà locale della Romagna nell'XI secolo.
La morte violenta di Benno potrebbe inserirsi nella serie di azioni che precedono la nascita del Comune, e testimonierebbe una serie di fermenti che coinvolsero la Chiesa, l'impero e la realtà cittadina.
[Antonio Montanari, «IL PONTE», n. 22, 12 giugno 1983]

San Pier Damiani tra Morciano e Rimini
[«Corriere di Romagna», 26.4.2007]
Il ricordo di san Pier Damiani organizzato a Morciano (27-29 aprile 2007) nel millenario della nascita, riguarda anche Rimini. Dove abitava la famiglia dei Bennoni che gli fece varie donazioni tra cui quella della terra su cui fu fondata, nel 1061 dallo stesso Pier Damiani, l'abbazia di san Gregorio in Conca a Morciano.
Il padre Benno era un grande feudatario, proprietario di vaste estensioni di terreni. Sua moglie Armingarda gli aveva recato in dote altre proprietà fondiarie. Dal loro matrimonio nacquero tre figli. Uno soltanto, Pietro Bennone, sopravvisse al padre. I territori assoggettati al loro controllo o di loro proprietà s'estendevano tra Rimini, l'entroterra riminese e quello marchigiano.
Quando Benno morì nello stesso 1061, fu ricordato da Pier Damiani in un carme. Benno vi è definito «onore del regno, e gloria della stirpe romana, padre della Patria, luce dell'Italia». Padre della Patria o della città era chiamato il rappresentante della vita municipale che doveva vegliare alla difesa del Comune sotto il dominio della Chiesa romana. Era una figura ben distinta dal conte che era un delegato pontificio od imperiale.
Uomo giusto e pio, severo con gli oppositori ma dolce con gli indifesi, Benno è dato da Pier Damiani per ucciso nel corso di una «guerra»: «lui, per merito del quale fiorì la pace», fu forse vittima di una lotta sulla cui origine possono essere avanzate soltanto ipotesi connesse al ruolo politico svolto dallo stesso Benno.
Uomo di fede e difensore degli interessi della Chiesa (altrimenti Pier Damiani non l'avrebbe glorificato), mentre la feudalità laica mirava ad una sostanziale autonomia politica ed aumentavano i sostenitori dell'indipendenza cittadina, Benno probabilmente non riuscì a pervenire ad una sintesi originale tra mondo laico ed ecclesiastico, per conciliare gli interessi «particulari» cioè cittadini con quelli della sede di Pietro.
I riminesi possono aver visto in Benno un capo che finiva per essere più il rappresentante del pontefice (come il conte) che della loro comunità. E quindi possono aver cessato di considerarlo come un'espressione della giustizia e dell'equilibrio nei rapporti fra la città e Roma. Nell'additarlo pubblicamente come traditore, sarebbe stata così scritta la sua condanna a morte. [Antonio Montanari, 26.4.2007]

Dimenticanze degli storici
[«Corriere di Romagna», 28.10.2010]
In una mia lettera qui ospitata il 26 aprile 2007, in occasione della manifestazione morcianese per san Pier Damiani, ricordavo l'importanza della figura di Benno dato per ucciso nel corso di una «guerra» del 1061. Questo risulta, aggiungo ora, da una nuova lezione di un testo dello stesso Damiani, offerta dall'illustre studioso Scevola Mariotti già nel 1965.
Scevola Mariotti aggiungeva che la nuova edizione di quel testo comporta conseguenze di ordine storico. Spiace constatare che non se ne siano accorti quanti hanno composto la nuova “Storia della Chiesa riminese”, il cui primo volume è appena apparso (cfr. p. 65)

Ecco a proposito dell'uscita del secondo volume della «Storia della Chiesa riminese», quanto ho pubblicato su Internet il 27.12.2010.
Benno trascurato
come al solito

Mi è appena giunto il primo volume della "Storia della Chiesa riminese", intitolato "Dalle origini all'anno Mille".
Sfoglio alcune sezioni più legate ai miei studi, e cerco una citazione "politica" per Benno...
La trovo a p. 65 nel saggio di Raffaele Savigni, professore associato di Storia medievale.
Qui si parla di "Bennone figlio di Vitaliano detto Bennio, che nel 1014 dona al figlio Pietro il castello di Morciano", e lo si dichiara "un importante esponente del ceto dirigente riminese, definito da Pier Damiani decus regni, pater patriae, lux Italiae".
Chiudiamo il libro e torniamo all'argomento.
Benno (il padre) muore nel 1061. Nel 1061 avviene pure la fondazione, da parte di Pier Damiani, del monastero intitolato a san Gregorio e posto nel territorio riminese, in località detta Morciano.
Ma c'è qualcosa d'altro che nel volume non si cita: Benno è dato da Pier Damiani per ucciso nel corso di una «guerra»: «lui, per merito del quale fiorì la pace», fu forse vittima di una lotta sulla cui origine possono essere avanzate soltanto alcune ipotesi connesse al ruolo politico svolto dallo stesso Benno.
Per chiarire le cose, ripubblico un mio articolo del 1983, facendolo precedere da un riassunto apparso sul Corriere Romagna il 26 aprile 2007.
Da essi appare evidente che la figura di Pietro Pennone neppure questa volta ha ricevuto il risalto che merita nella storia "civile" e della Chiesa riminese.
Nel mio articolo del 1983, riprendevo quanto nel 1965 Scevola Mariotti suggeriva, interpretando in modo nuovo il carme XCIX di Pier Damiani, al v. 12 edito come "per quem pax viguit, bellica sors perimit", anziché "bellica sors periit", per cui abbiamo: "la guerra uccise colui per merito del quale fiorì la pace", anziché "per lui fiorì la pace, la guerra cessò".
Scevola Mariotti aggiungeva: "Quindi, a quanto pare, Bennone fu ucciso in un fatto di guerra". Questo testo di Scevola Mariotti è stato da me citato nella nota 70 di p. 99 della "Storia di Rimino" di Antonio Bianchi (Rimini, 1997).
Di Benno ho parlato pure nel 2010 in un articolo pubblicato sul "Ponte" di Rimini il 24 febbraio, intitolato "Le carte segrete di Scolca", in cui si legge:
«Pier Damiani è molto citato e poco letto. Nel 1069 Pietro Bennone gli dona vasti possedimenti (poi passati a Scolca) per l'abbazia di San Gregorio in Conca di Morciano da lui fondata nel 1061. Bennone è figlio di Benno, grande feudatario e uomo politico di Rimini. Pier Damiani compiange la morte di Benno (1061) in un carme, definendolo "padre della Patria, luce dell'Italia".
Il "padre della Patria" o della città (come scrissi su "il Ponte" del 12.06.1983), è il rappresentante della vita municipale che doveva vegliare alla difesa del Comune sotto il dominio della Chiesa. Una figura ben distinta dal conte, delegato pontificio od imperiale. Uomo giusto e pio, severo con gli oppositori ma dolce con gli indifesi, Benno è dato da Pier Damiani per ucciso nel corso di una "guerra": "lui, per merito del quale fiorì la pace".
La morte di Benno è una pagina (chissà perché) trascurata dagli storici ufficiali, ma capace di illuminare fondamentali vicende cittadine dei "secoli bui".»
All'Archivio Benno 2013.


2. Rimini 1220

Uno «Statuto» sulla «aggregazione dei forastieri» (L. Tonini, Storia di Rimini, III, pp. 24-27) del 1220 reca: «exceptam[us] et[iam] et angariales hac abitatores nostroru[m] civiu[m] q[ui] modo s[un]t [ve]l in antea er[un]t…».
Nella appena ricordata edizione della «Storia di Rimino dalle origini al 1832» di Antonio Bianchi (p. 103, nota 74) abbiamo proposto d'interpretare quell'«exceptamus etiam» non come il classico «ed eccettuiamo» (Tonini, III, p. 25, riassume: «Eccettuati…»), ma come: «Per eccezione accogliamo anche…».
Il verbo «excipio» classicamente significa anche «cogliere, accogliere» al pari di «accipio», per cui si leggono le formule «aliquem benigne excipere» (T. Livio) e «bene excipere» (Cicerone). Il Du Cange reca un «hospitio excipere» che rende con «accogliere».
C'è poi da osservare l'aspetto formale o stilistico dello «Statuto» del 1220. I documenti giuridici sono articolati in catene di elementi, quando impongono. L'articolazione logica è diversa nell'elenco minuzioso degli obblighi; tra parentesi (come in questo caso del 1220) può esserci soltanto non l'eccezione («tranne…»), ma la comprensione («così pure per…»).
Di questo aspetto formale troviamo conferma in un documento (Tonini, III, CIV, p. 553) della stessa epoca, ovvero del 1255, che conferma gli antichi privilegi tranne un certo canone annuo. Tale conferma è in un paragrafo del tutto separato da quello in cui ci sono gli obblighi imposti a Rimini…
La stessa struttura logico-stilistica osserviamo negli «Statuti» del 1334 (Tonini, III, p. 27) per la «Rubrica 109 del Libro II» sulla «francazione de' servi».
Ritorniamo al testo del 1220. Quel «compresi» che proponiamo al posto dell'«eccettuati» che leggiamo in Tonini, si comprende meglio con quanto avviene a Bologna nella seconda metà del XIII secolo, quando c'è un'affrancazione collettiva dei servi (1257), come leggiamo nel saggio di Gina Fasoli, Profilo storico dall'VIII al XV secolo, in «Storia della Emilia Romagna, I», Bologna 1975, p. 385.


3. Ghigliottina per «Bellagamba», 1854
Testimone, la mia bisnonna che aveva sette anni


La mia bisnonna Augusta Gattei il 22 dicembre 1854 aveva sette anni e mezzo. Era nata il 29 aprile 1847, figlia di Francesco e Rosa Michelucci. Abitava lungo il corso d'Augusto, nei pressi dell'Arco. Quel 22 dicembre fu un giorno particolare per Rimini. Sulla piazza del Corso, l'odierna piazza Malatesta, la ghigliottina mozzò il capo di Federico Poluzzi, soprannominato «Bellagamba».
La piccola Augusta assisté al drammatico spettacolo, ricavandone impressioni e ricordi indelebili, tramandatisi in casa nostra di generazione in generazione. Di quelle immagini che la bisnonna vide e narrò, fece un breve resoconto il fratello di mia madre, in una paginetta pubblicata (e firmata soltanto con la sigla G. N.) nel programma della ottava edizione della «Festa de' Borg», tenutasi in San Giuliano il 5 e 6 settembre 1992.
Ora vedo citata quella paginetta in un grosso volume della Fondazione Carim, che raccoglie gli atti di un recente convegno storico su Castel Sismondo («Castel Sismondo. Sigismondo Pandolfo Malatesta e l'arte militare del primo rinascimento», a cura di A. Turchini, Cesena 2003, pp. 380). E proprio nell'ultima pagina dell'ultimo capitolo («dulcis in fundo», o «in cauda venenum»?), incontro un discorso che ovviamente farebbe inquietare la bisnonna, perché indirettamente vi si mette in dubbio la sua testimonianza, ed il racconto che lei ripeté per centinaia di volte, lasciando probabilmente svanire l'iniziale raccapriccio legato alla visione infantile di quell'uccisione, e trascolorando le parole in un'atmosfera da leggenda: cosa che càpita a tutte le cronache che vengano riproposte in più occasioni dall'identico narratore.

Letteratura o solo Storia?
Lo studioso che nel libro ha riferito il racconto dell'esecuzione capitale di Federico Poluzzi, non ha ovviamente sostenuto che l'Augusta Gattei non aveva visto quello che aveva raccontato. Ha però scritto un'altra cosa che farebbe egualmente (anche se, com'ho detto, in maniera indiretta) dispetto alla bisnonna, e direttamente all'estensore di quella paginetta, il nominato G. N., se anch'egli non fosse nel regno dei più, e quindi non in grado di farsi una bella risata in un incontro conviviale con amici o parenti, com'era sua costumanza davanti alle situazioni strampalate (ovvero prive di logica). Entrambi, la nonna ed il nipote, debbono limitarsi ad ascoltare sorridenti dall'Aldilà, per esser stati tirati in ballo nell'Aldiquà con «poca grazia» (come dicevano con arguzia i nostri vecchi).
I fatti. Il volume sul convegno malatestiano, in quell'ultima pagina dell'ultimo capitolo, contiene alcune espressioni che non mi piacciono per nulla, e che sono frutto di un'esagitata analisi che sfocia nell'assurdo. Dunque. Sulla «vicenda orribile» di Federico Poluzzi, vi si dice che la testimonianza di Augusta Gattei, la mia bisnonna, era stata «a suo dire raccolta» dal nipote, il G. N. già nominato in atti.
Quando solitamente si vuole insinuare il dubbio sopra un'affermazione di qualcuno, si aggiunge sùbito appunto questa espressione («a suo dire») per suggerire la negazione della sua veridicità. Lo storico che nutre dubbi sullo scritto del nominato G. N., aggiunge, senza tuttavia essere o dimostrarsi un commissario Montalbano: «ma ho il sospetto che la letteratura abbia fatto aggio sulla storia». Il che tradotto in soldoni significa (od almeno così interpreto): ho il sospetto che il nominato G. N. abbia copiato tutta la storia di Federico Poluzzi, e le cose non stiano come il medesimo afferma nel suo breve scritto borghigiano. La parola «sospetto» può anche significare «indizio»: ma non è il caso di questo giudizio affrettato che non riferisce indizi, ma si appella a qualcosa di indefinito come «una vaga impressione». La Storia però non si fa richiamandosi ad impressioni soggettive (ed oltretutto vaghe) che possono dipendere da tanti fattori, cominciando ad esempio dal cibo che si è mangiato o dal modo in cui lo si è digerito. La peristalsi non è un buon giudice, per comune opinione.
Secondo lo studioso malatestiano, il nominato G. N. non avrebbe detto cose veritiere di propria conoscenza, a lui trasmesse dal racconto della nonna Augusta, ma avrebbe imbrogliato le carte ricopiando il racconto (o ricavandolo) dai verbali dell'esecuzione di «Bellagamba» pubblicati nel 1990 da altro storico riminese nel primo volume di una «Storia» cittadina (pp.267-272).

Un «sospetto» di troppo
Che cosa c'entra questo particolare della pubblicazione dei verbali nel 1990 con il fatto che la mia bisnonna aveva raccontato al nipote (il fratello di mia madre) la scena della morte del Poluzzi? Si vuol soltanto insinuare che i verbali in quella «Storia» cittadina sono anteriori alla «memoria» sulla mia bisnonna Augusta. Per sapere e sentenziare che il 1990 viene prima del 1992, non occorre troppa «scienza infusa». Ma da questa semplice constatazione (che il 1990 precede il 1992) deriva una conseguenza che porta diritto lo studioso malatestiano al «sospetto» che quel nipote non sapesse nulla (cioè non avesse appreso nulla dalla sua nonna), ed all'ipotesi che quanto ha scritto lo avesse invece dedotto soltanto dal testo della «Storia» cittadina apparso nel 1990. Il particolare su quei verbali apparsi nel 1990 logicamente non significa nulla né nel testo né nel contesto. Indica soltanto il fatto che esso è stato preso a pretesto da qualcuno per fare un'affermazione talmente priva di fondamento storico da apparire un abbaglio dettato da «volerne sapere una più del diavolo», come avrebbe detto sarcastica la bisnonna.
Ed a questo punto la stessa bisnonna potrebbe aversene a male. Insinuandosi da questo qualcuno il sospetto che il di lei nipote si sarebbe costruito quella narrazione non in base al racconto della di lui nonna, ma in virtù dei verbali pubblicati «anno Domini» 1990; l'Augusta potrebbe sbottare in una risposta irriferibile, in quanto implicitamente ed indirettamente in questo processo «indiziario» al nipote, resta lei stessa coinvolta, per un semplice dato di fatto logicamente deducibile da quell'ultima pagina di quell'ultimo capitolo. Ovvero: se il nominato G. N. ha raccontato la balla di aver appreso dalla nonna, eccetera; allora anche la detta nonna è tirata in ballo per i capelli a causa della balla medesima, in quanto si suppone che, se il nipote non sapeva, neppure lei aveva visto. E non avendo visto non poteva raccontare.
Non so se sono riuscito a spiegarmi. Non ho l'arguzia degli accademici che nutrono sospetti (senza avere indizi), né ho l'abilità scrittoria del creatore del Commissario Montalbano che chissà quanto si divertirebbe a giocare con ombre e fantasmi che navigano mestamente in questa pagina sopra la ghigliottina della piazza riminese, entrata in azione quel 22 dicembre del 1854, quando la bisnonna Augusta aveva sette anni e mezzo, e l'innocenza di una fanciulla a cui il mondo non sapeva offrire altro pubblico spettacolo di quello di un'esecuzione capitale.

Il racconto di Carlo Tonini
Torniamo brevemente a quel giorno del 1854 (e non del 1856 come invece scrive erroneamente lo storico malatestiano di oggi a p. 380). Partiamo dal «Compendio» (1896) di Carlo Tonini, in cui si riporta che il Poluzzi era ritenuto un assassino abituale («imputato, come dicevasi, di molti omicidii»), ma doveva rispondere per l'occasione soltanto dell'uccisione di don Giuseppe Morri, mansionario della cattedrale: «La pena era il taglio della testa colla ghigliottina, e fu eseguita sopra un palco eretto nella piazza Malatesta, o del Corso, sul campo presso la rocca. Intrepido porse il collo alla scure: e un senso di ribrezzo e di orrore ne rimase per lunga pezza al popolo non usato a così fatti spettacoli» (p. 569). Altrettanto striminzita l'annotazione del padre di Carlo Tonini, Luigi nella sua «Cronaca» edita da Ghigi nel 1979 (p. 80), con la differenza che rispetto al figlio usa qualche maiuscola in più nel corso del testo. Il nominato G. N., nell'opuscolo borghigiano racconta particolari inediti che né i Tonini né la «Storia» riminese del 1990 riportano.
«Bellagamba» non era uno stinco di santo, anzi aveva fama pessima. Di natura indocile e considerato pertanto una «testa calda», doveva essere uno di quei giovani che, nei giorni inquieti di allora, «tra lom e scur i andeva a prét e a pulizai», narra il G. N. citato. Nulla deponeva a suo favore, anche se «tra chi lo conosceva, si sussurrava che altri fossero gli uccisori di don Morri e che lui avesse rinunciato a difendersi presentando un alibi per non compromettere la moglie di un fornaio con cui aveva trascorso in intimità l'ora in cui era stato ucciso don Morri».
La mia bisnonna aveva mantenuto impresse nella memoria tutte le immagini viste dipanarsi davanti agli occhi innocenti, nella piazza della Rocca. Il color marroncino della ghigliottina, la lama «lustra c'la arluséva», il carnefice venuto con la macchina per l'esecuzione da Ancona, «un umaz cun e capel dur, e tòt ner com un bagaron». E poi la folla degli spettatori che litigano per accaparrarsi un posto da cui godere meglio la scena, i soldati che faticano ad arginarli e «i ragneva», dando degli spintoni a tutti.

L'ultimo desiderio
La bisnonna vide «Bellagamba» esprimere l'ultimo desiderio del condannato: «un pizzunzein arost, un bicér d'mistrà e un Virginia» (ch'era un sigaro di buona marca). Lo guardò poi salire sul palco, esaudite le sue richieste, e lo «ricordò per sempre come l'incarnazione del protagonista di certi romanzi popolari del suo tempo»: «L'era bèl. Drét com'un fus e spaveld. L'aveva i calzun scur con la fianchetta elta stretta in vita, la camisa bienca cun e' jabot. E' camineva a pèt in fòra, e us videva che un aveva paura gnenca de dievul». Alla bisnonna Augusta dà ragione Carlo Tonini, come si è già letto: Federico Poluzzi, alla fine della pubblica cerimonia, «intrepido porse il collo alla scure…». «Et hoc sufficit pro veritate» circa il racconto della mia bisnonna e la trascrizione fatta dal di lei nipote nell'anno 1992.
Antonio Montanari (2004)


4. Aurelio Bertòla, alla ricerca di una vita nascosta

All'inizio di quel suo libro fondamentale (e non soltanto per gli studi serriani) che è «Il lettore di provincia» (1964), Ezio Raimondi riportava una paginetta del critico cesenate in cui si affronta il tema della «maschera dello scrittore» (nello specifico Kipling), e della «figura» che questi prende in pubblico. L'osservazione di Serra, al di là delle implicazioni autobiografiche per il bibliotecario malatestiano che Raimondi individua nel suo presentarsi come «lettore dilettante», può essere utile quale avvertenza metodologica per affrontare un poeta settecentesco, di cui ricorre quest'anno il bicentenario della morte, Aurelio De' Giorgi Bertòla. Il quale era nato nel 1753 a Rimini, dove si spense dopo aver girato l'Italia e l'Europa con un'inquietudine che lo ha fatto apparire la tiepida incarnazione di umori preromantici, soprattutto per il «Viaggio sul Reno» (1795), divenuto una specie di vademecum per i giovani non ancora diversamente turbati dalle accese pagine dell'«Ortis».
Il tema della «maschera» si applica perfettamente a Bertòla, la cui dimensione letteraria spazia su vari registri che potrebbero apparire ai nostri occhi, senza malizia, in evidente contrasto fra loro. Basti soltanto ricordare l'esperienza del debutto con le tre «Notti» composte fra '74 e '75 in morte di papa Clemente XIV, alle quali tiene dietro nel '76 il libretto erotico di «Versi e prose».
Questo contrasto (che forse è superfluo definire apparente, essendo il suo modo di celarsi esso stesso una rivelazione), questo contrasto è soltanto uno dei tanti che caratterizzano una persona la quale ebbe come unica vocazione la poesia, ma che fu costretta a quindici anni ad un forzato ingresso in monastero: per quanto fossero libertini quei tempi, il suo stato religioso non poteva non essere in contraddizione con una sensualità accesa, insaziabile, a tratti violenta, manifestata tra i plausi dei salotti e delle dame, ritrose per gioco ed accondiscendenti con le mille giustificazioni che cultura, filosofia e costumanze fornivano loro senza limiti. Dame il cui consenso rendeva Bertòla convinto del suo procedere secondo natura alla ricerca di quella «voluttà» da lui teorizzata quale idolo e scopo della vita umana.
In questa dissipazione, come lui stesso la chiama, Bertòla ad un certo punto si convince che deve mutare la sua immagine pubblica, e confida in un'epistola all'abate Giancristofano Amaduzzi, ricercato ed inascoltato maestro di bon ton esistenziale, che gli nuoceva «esser poeta» (1779). Eccolo allora, Bertòla, mimetizzarsi nei panni austeri del pensatore che si applica alla stesura della «Filosofia della Storia» (1787), le cui modalità stilistiche così opposte a quelle del prosatore elegante e affascinante che era, ci indicano tutta la tensione che lo sforza ad abbandonare l'istinto letterario suo proprio, ed a recitare una parte saccente e noiosa, grazie alla quale sperava di guadagnare i conforti di potenti protettori.
Ad un certo punto, non per conversione, ma per insensibile adeguamento a quello che M. A. Macciocchi nella recente biografia di Luisa Sanfelice chiama un «vezzo di gran moda» tra gli intellettuali dell'epoca, sposa le tesi filantropiche degli «illuminati» massonici, esibendosi in un ruolo utile alla carriera ma non corrispondente alle sue condizioni psicologiche: le certezze che egli esibisce in molte pagine (prese a modello per dimostrare una sua precisa scelta ideologica), nascondono le inquietudini dolorose che ancor oggi feriscono il lettore del suo epistolario. Costretto a mendicare aiuti da Roma e contemporaneamente dai francesi, come risulta da tante sue pagine inedite, mentre lavora come giornalista per la (presunta) rivoluzione, progetta di fuggire non fra le braccia di Napoleone, ma a Vienna, dal nemico dei soldati repubblicani.
Bisognerà che anche per Bertòla un giorno si compili una veritiera biografia critica, in cui la sua produzione intellettuale venga letta non solamente attraverso le coordinate della cultura settecentesca, ma pure attraverso questo suo continuo oscillare psicologico tra verità esistenziale e «figura» letteraria, evitando ogni preconcetto moralistico e tentando di coglierne il vero significato: le sue contraddizioni lo perseguitarono fino alla morte, quando le esequie furono non un omaggio pubblico alla grandezza del suo genio, ma una cerimonia rapida e nascosta per non celebrare le glorie mondane di chi veniva reputato un nemico della Chiesa. (E che della sua tomba, nel Tempio Malatestiano di Rimini, oggi nulla si sappia, pare quasi un particolare simbolico della dimenticanza che avvolge la vera storia della vita di Bertòla.)

Antonio Montanari
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