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il Rimino - Riministoria

Nel mosaico della memoria
Accreman, storia d’una educazione civile

Ottant’anni compiuti il 23 novembre scorso, Veniero Accreman ha presentato di recente un suo libro di memorie, nascoste sotto un titolo colto, «Le pietre di Rimini» (ed. Capitani, pp. 279, 10 euro) che non lascia indovinare nulla dell’interessante contenuto. Il mistero del titolo è chiarito verso la fine, nel ritorno in città dopo la conclusione del conflitto: «Le pietre di Rimini dicono: distrutte le case, cacciati gli abitanti, cessate le attività; non c’è più speranza. […] Rimanevano solo le sue pietre silenziose e ricordavano la vita del passato e la rovina di oggi».
Nella pagina che introduce il suo lavoro «a mo’ di prefazione», egli avverte subito che si tratta del «racconto di un’adolescenza» al tempo del fascismo e della Resistenza. E l’inizio delle sue storie avviene con un simbolico richiamo alla guerra: «Il fronte si era avvicinato insensibilmente; ma adesso era lì, dopo quelle colline verso sud, e le altre – appena un po’ più lontane – verso occidente».
Accreman è un noto avvocato penalista cittadino che ha esercitato anche la militanza e la professione politica per il partito di Togliatti, diventando sindaco di Rimini e deputato al Parlamento per due legislature. La sua fede comunista nasce spontaneamente quale avversione al fascismo imperante: «Cominciavamo a percepire il regime come una grave limitazione delle possibilità che la vita mostrava».

Indole ribelle
del liceale colto

Il mondo appariva diverso da come lo presentavano capi e capetti. Indole ribelle, egli finisce in carcere per tre giorni a causa di una bega burocratica legata all’attività commerciale della madre che vendeva lane sul corso d’Augusto. Recatosi all’ufficio dei Vigili Urbani per chiarire i termini di un adempimento amministrativo, ebbe alla fine della risposta del suo interlocutore un commento in termini spregiativi nei confronti dei commercianti: «Vidi mia madre e la sua fatica, poi non vidi più nulla: mi avventai, lo presi per il collo e lo scossi intimandogli di tacere». Ammanettato, il giovane Veniero è trasferito alla Rocca malatestiana, sede delle carceri: durante l’ora d’aria si mette «in compagnia di due studenti, arrestati per aver portato a scuola manifestini contro il regime», e sùbito fraternizza con loro. Liberato il sabato santo, Accreman non fu mai processato, in quanto salvato l’anno dopo dall’amnistia.
Al Liceo avverte tra le parole del professore di Lettere qualcosa che non quadra con le verità ufficiali del regime, «delle divise, delle fanfare, delle parate». Il resto lo fanno gli amici. Quattro ne elenca: Guido [Guido Nozzoli], «aitante, elegante; dalla parola rapida, inarrestabile; ricco di humour e di metafore ardite, insaziabile nelle letture. Scambiava il giorno per la notte; compariva di pomeriggio ed era il racconto ininterrotto delle sue esperienze letterarie del giorno prima». Parlava ed «incantava». Sarcastico verso ogni autorità, lo definisce in altro luogo del libro, dove completa il ritratto intellettuale dell’amico.

Guai per un
cuscino di fiori

Ci sono poi Gino («continuamente teso – nel ragionamento – verso uno scopo, tenace nel perseguirlo fino a che la discussione non riposasse su certezze indiscutibili»). e Giorgio che, meno interessato alla politica e portato alla Medicina, «difendeva a ogni momento il valore della scienza come la più grande conquista umana».
Infine, Walter: suo padre aveva negozio di fronte a quello della madre di Accreman. Era andato via da Cesena per ragioni politiche. Quando il padre di Walter morì, la famiglia Accreman inviò «nella camera ardente un cuscino anonimo di garofani rossi; a una certa ora fummo avvertiti che i fascisti avevano individuato i committenti e li stavano cercando; mio padre e i miei zii si rifugiarono in un anfratto lungo il fiume Marecchia, e io andai con loro; tornammo a casa di notte, quando sembrava che tutto si fosse acquietato; in famiglia c’era preoccupazione, io vivevo con malessere questa vicenda».
Se con l’occupazione dell’Etiopia (ottobre 1935 - maggio 1936) nella popolazione in generale «il consenso cominciò a diminuire», spiega Accreman, con la guerra di Spagna (1936-1939) i giovani come lui cominciarono a prendere «una coscienza politica».

Le stupidaggini
razziste

Sui muri di Rimini appaiono scritte contro Franco. La questura arresta alcuni degli antifascisti «schedati», fra cui il pittore anarchico Giorgio Amati, «uomo che non avrebbe mai fatto male a una mosca», e sofferente di cuore. Una volta liberato Amati, Accreman si reca a salutarlo nella sua bottega di corso Umberto: «Era seduto davanti al cavalletto; lasciò la tavolozza e i pennelli, lo colse un singulto di pianto; poi si asciugò le lacrime e mi scongiurò, per il mio bene, di andarmene; disse che la bottega era sorvegliata, e forse sarebbero venuti a casa mia a chiedere spiegazioni per quella visita».
Intanto nel 1938 è cominciata la campagna antisemita per la difesa della razza pura. «Ragazzi come noi, amici e compagni di classe, mostravano di condividere le stupidaggini razziste che radio e giornali propinavano ogni giorno». L’odio contro gli ebrei entusiasma alcuni giovani che si dichiarano pronti ad eseguire gli ordini del regime, a fare il loro dovere contro gli impuri. «Comparvero manifesti con diaboliche facce semitiche, che succhiavano sangue». L’allontanamento dei ragazzi ebrei dalle scuole, scrive Accreman, «ci sembrò un provvedimento ignobile». I commercianti sono invitati ad esporre il cartello «Questo negozio è ariano». Sua madre rifiuta.
«L’intelligenza riminese – quella viva – era all’opposizione». Tra gli amici troviamo anche due pittori, Demos («popolano, ombroso») e Sesto («riservato, aristocratico nel portamento»). «Eravamo felici. Commisuravamo la nostra giovanile capacità di giudizio con la becera stupidità di gerarchetti intenti a impartire ridicoli ordini; avevamo il senso del nostro valore intellettuale, anche se al momento impossibilitati a farlo contare».
Quei ragazzi vogliono misurare la loro capacità mentale non soltanto nella polemica quotidiana che affascina ed angoscia, ma pure con qualcosa di più vero e grande: «studiare le idee che avessero attinenza con la storia, con i regimi politici, coi cambiamenti delle nazioni». Questa almeno è la scelta di Accreman. Giovane latinista, egli si definisce, dichiarandosi in particolare ammiratore di Tacito: «Cercavo nel molto buio e nelle poche luci il senso della storia, e alla fine l’insegnamento ne sgorgava». Quello del suo ideale, lo Stato, come organizzazione creata dagli uomini per la salvezza comune. Dopo Tacito, ricorda Machiavelli di cui apprezza la dignità non schiacciata dalla malasorte.

La lettura
dei Vangeli

Intanto Accreman continua a leggere i Vangeli: «Non ero più un credente; avevo iniziato lo studio della scienza e le congetture metafisiche non facevano più per me; continuavo però a ritenere che quello dei Vangeli fosse l’insegnamento morale più alto conseguito dagli uomini». Di quest’insegnamento e dell’effetto che il giovane Accreman ne ricevette come impronta fondamentale per il suo comportamento, abbiamo testimonianza esplicita proprio all’inizio di queste sue memorie (affascinanti anche per lo stile letterario usato), in una pagina sulla guerra, che merita di essere ricordata per intero.
«Fin’allora», scrive Accreman, «avevo solo letto, studiato; adesso la vita mi battezzava a quella maniera: uno scontro a fuoco con un gruppo di soldati tedeschi – i soldati più forti del mondo – per la vita o per la morte». Veniero, Sergio e Libero sono assieme a Tonino e Nicola. Accreman ha una P38. Sergio gli dà ordine di sparare. Non obbedisce. Quei militari nazisti, loro non li uccidono. Li catturano. Commenta Accreman: «Ho cercato di capire meglio quel momento, in cui l’azione, per fortuna, aveva consumato l’esitazione del pensiero».
Alla fine comprende che quell’esitare era stato dettato «dal timore di dover uccidere. L’educazione cristiana aveva segnato con forza la mia mente; non credevo più nella divinità, ma l’insegnamento morale rimaneva immutato. Il rifiuto della violenza, il rispetto per la vita, l’orrore per la sua soppressione erano una parte di me. Perciò ho sempre stimato che il modo e l’esito di quello scontro (il disarmo dei tedeschi senza sangue) sia stata la cosa la cosa migliore che potesse accaderci. E’ la massima di un antico storico che mi viene in mente: ‘La guerra è un maestro violento’. Sono stato felice di non aver imparato troppo».

Antonio Montanari


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869/Riministoria-il Rimino/29.11.2003
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