Fuorisacco, 26.06.2016.  Riletture mie e censure altrui.
Rimini 1220. Nuova versione 2016.


Uno «Statuto» sulla «aggregazione dei forastieri» del 1220 reca: «exceptam[us] et[iam] et angariales hac abitatores nostroru[m] civiu[m] q[ui] modo s[un]t [ve]l in antea er[un]t...» (cfr. L. Tonini, «Storia di Rimini», III, Rimini 1862, rist. 1971, pp. 24-27).
Nella «Storia di Rimino dalle origini al 1832» di Antonio Bianchi (a cura di A. Montanari, p. 103, nota 74, Rimini 1997) abbiamo proposto d'interpretare quell'«exceptamus etiam» non come il classico «ed eccettuiamo» (Tonini, III, p. 25, riassume: «Eccettuati...»), ma come: «Per eccezione accogliamo anche...».
Il verbo «excipio» classicamente significa pure «cogliere, accogliere» al pari di «accipio», per cui si leggono le formule «aliquem benigne excipere» (T. Livio) e «bene excipere» (Cicerone). Il Du Cange («Glossarium mediae et infimae latinitatis») reca un «hospitio excipere» che rende con «accogliere».
C'è poi da osservare l'aspetto formale o stilistico dello «Statuto» del 1220.
I documenti giuridici sono articolati in catene di elementi, quando impongono. L'articolazione logica è diversa nell'elenco minuzioso degli obblighi; tra parentesi (come in questo caso del 1220) può esserci soltanto non l'eccezione («tranne...»), ma la comprensione («così pure per...»).
Di questo aspetto formale troviamo conferma in un documento (Tonini, III, CIV, p. 553) della stessa epoca, ovvero del 1255, che conferma gli antichi privilegi tranne un certo canone annuo.
Tale conferma è in un paragrafo del tutto separato da quello in cui ci sono gli obblighi imposti a Rimini.
La stessa struttura logico-stilistica, l'osserviamo negli «Statuti» del 1334 (Tonini, III, p. 27) per la «Rubrica 109 del Libro II» sulla «francazione de' servi» («exceptis in civitate morantibus», etc).

Ritorniamo al testo del 1220. Quel «compresi» (che proponiamo al posto dell'«eccettuati» presente in Tonini), si comprende meglio riandando quanto avviene a Bologna nella seconda metà del XIII secolo, quando c'è un'«affrancazione collettiva dei servi del contado», con il riscatto pagato dal comune (3 giugno 1257), come leggiamo nel saggio di Gina Fasoli, «Profilo storico dall'VIII al XV secolo» (in «Storia della Emilia Romagna, I, a cura di A. Berselli», Bologna 1975, pp. 365-404, p. 385).
A Bologna in quella seconda metà del XIII sec. si afferma che «per diritto naturale, tutti gli uomini nascono originariamente liberi»; si ricorda che «il popolo e il comune di Bologna affrancò tutti i servi della città e del contado e li liberò da qualsiasi giogo di schiavitù»; e si constata che, nonostante ciò, si erano diffuse «alcune forme di schiavitù, soprattutto tra i nobili e i potenti, che aggiogano a sé uomini, i loro beni e i loro discendenti», ricorrendo a parole come fedeli, manenti, residenti, coloni, per cui «per la maggior parte gli uomini del contado e del territorio di Bologna [...] sono pubblicamente vincolati ad un legame, per dir così, di schiavitù e quasi stanno per cadere in condizione di servitù se non vi si opporrà un efficace rimedio».
Questo testo è ripreso dagli «Atti del Comune di Bologna (1257-1304» apparsi in P. Vaccari, «Le affrancazioni dei servi della gleba», Milano, ISPI, 1939, pp. 45-53, passim, e citt. nel volume «La storia medievale attraverso i documenti», a cura di A. M. Lumbelli e G. Piccoli, Zanichelli, Bologna 1974, p. 169.

La liberazione dei contadini dalla servitù a Bologna, riguarda 5.791 persone. (Secondo altre fonti odierne, sono invece 5.855...)
«I comuni liberavano i servi per vari motivi: per sfoltire le città sovraffollate e ricacciare i contadini in campagna a lavorare la terra e, soprattutto, per aumentare la popolazione tassabile perché i servi erano esenti dall'imposta in quanto proprietà dei loro signori», leggiamo in G. Piccinni, «I mille anni del Medioevo», Milano 1999, p. 264.
«Infine la libertà si poteva comprare, singolarmente o a piccoli gruppi, riscattandola dal signore che la metteva in vendita dietro il pagamento di una somma di denaro o di un bene immobile del quale il contdaino disponeva» (ib.).

Gina Fasoli, in un altro saggio («Feudo e castello», «I documenti, Storia d'Italia, V, 1», Torino 1973, pp. 261-308, p. 285), sottolinea la complessivtà della questione dei rapporti tra i Comuni ed i Signori feudali che sopravvivono nelle campagne in una «pluralità di organismi politici di svariatissima origine»; e ricorda: «I comuni cittadini cominciarono assai presto a farsi valere nei confronti di questa molteplicità, dinamica e mutevole, e ne ottennero la "sottomissione"».
Nello stesso volume, con Athos Bellettini («La popolazione italiana dall'inizio dell'era volgare ai nostri giorni. Valutazioni e tendenze», pp. 481-504, p. 503-504), dobbiamo ricordare due fatti interdipendenti, ovvero il progresso delle campagne e lo sviluppo dei centri urbani: «la graduale integrazione economica e sociale fra la città e le zone agricole circostanti» permette di gettare «le basi del comune medievale, di quella società comunale che [...] rappresenta il prodotto più alto del Medioevo italiano».

Quando si legge degli eventi bolognesi, s'incontra una citazione classica, quella di un proverbio tedesco secondo il quale «L'aria della città rende liberi, dopo un anno e un giorno» («Stadtluft machtfrei nach Jahr und Tag»).
Su questo aspetto, sono fondamentali le pagine di Jacques Rossiaud, «Il cittadino e la vita di città», contenute in J. Le Goff (a cura di), «L'uomo medievale», trad. di M. Garin, Roma-Bari 1993, pp. 158-200.
Le Goff («La città medievale», Firenze 2011, p. 8), offre un'immagine preziosa che si potrebbe considerare come la Stella Polare di ogni indagine sul tema che qui affrontiamo: la città, «questa figlia del Medioevo», è stata «davvero la madre dell'odierna coscienza europea».
Per cui, aggiungiamo, ogni riesame dei documenti del passato, deve aver coscienza che qualsiasi elemento, anche il più trascurato o dimenticato, ha una sua dignità che ci obbliga ad esaminarlo nei suoi fondamenti veri e non presunti.

L'esempio di Bologna è seguito da Firenze con «un atto solenne del 1289», ispirato al principio che era «di naturale diritto la libertà individuale e il non dipendere ciascuno che dal proprio aribitrio», come scrive Cesare Cantù («Storia degli Italiani», III, Pomba, Torino 1854, p. 383).
Circa il problema di libertà e di schiavitù, già nel XIII sec. prima di Tommaso d'Aquino, si sostiene «con Isidoro, Agostino, Gregorio ed i giuristi, che la libertà è un diritto naturale» (R. M. Pizzorni, «Il diritto naturale dalle origini a S. Tommaso d'Aquino», Bologna 2000, p. 395).

Torniamo a Rimini ed agli «Statuti» del 1334, con quell'«exceptis in civitate morantibus» che abbiamo citato (Tonini, III, p. 27). E che sottolineerebbe come nel provvedimento rientrino tutti: servi, forastieri o cittadini che fossero.
La traduzione di Luigi Tonini (p. 25: «Eccettuati coloro che servi fossero dei cittadini nostri presenti e futuri, abitanti di continuo la città, e paganti tributo»), contrasta con la linea politica che si registra in quasi tutta l'Italia centro-settentrionale dell'epoca, quando i contadini spesso sono sciolti dai legami della Signoria «per intervento diretto dei grandi comuni cittadini, che in tal modo completarono e condussero al limite estremo le spinte interne alla società rurale», come leggiamo in un saggio di Giovanni Cherubini, «Agricoltura e società nel Medioevo», (Firenze 1972, p. 51).
Non per nulla il testo di Cherubini è contenuto nel paragrafo 3 (del terzo capitolo, «Signori, contadini e borghesi»), significativamente intitolato «La comunità rurale e le sue conquiste».
Tornando a Rimini ed al Tonini, c'è forse da chiedersi: quale logica politica ci sarebbe stata nel premiare soltanto i servi forestieri e punire quelli abitanti di continuo nella città?

A questa domanda cerca di rispondere il 3 agosto 1748 l'illustre scienziato Giovanni Bianchi, in un lettera inviata alle «Novelle letterarie Fiorentine» (n. 37, coll. 578-584): «Dovettero forse i riminesi fare questo Decreto [...] per mancanza di popolo, per invitare le persone a venire qua a soggiornare» [col. 583].
Al dubbio sui fatti passati, il dottor Bianchi fa seguire una certezza, indiscutibile a suo parere, sui tempi in cui Rimini allora viveva: la città era afflitta dall'«abbondanza grande degli scioperati» e dei vagabondi, che avrebbe dovuto suggerire agli amministratori cittadini di far «ritornare in piedi l'usanza delle antiche servitù».
Il testo di Bianchi è ricordato da Luigi Tonini (III, pp. 25-26). Ma si veda pure in Carlo Tonini, «Compendio della Storia di Rimini», I, Renzetti, Rimini 1895, pp. 213-214.

La precisazione, sottolineata da Luigi Tonini, che chi chiedeva l'aggregazione alla cittadinanza di Rimini in base al relativo Statuto fatto nello stesso 1220 (III, p. 27 e doc. XXXI, p. 427) doveva dichiarare in premessa «di non essere uomo di alcun cittadino», sembra essere soltanto una formula giuridica, evidentemente necessaria per delineare con chiarezza la posizione formale del soggetto che richiedeva la stessa aggregazione.
Era logico che un riminese non potesse dichiararsi forestiero, così come il forestiero dovesse confermare di non aver legami con il territorio nel quale voleva entrare, appunto e soltanto perché «forestiero».

Il discorso sin qui condotto non pretende altro che di collocare il documento riminese del 1220 in un contesto storico il più ampio possibile, per superare l'impostazione alquanto limitata che ad esempio emerge dalla pagina di Giovanni Bianchi. Il quale sembra ridurre la lettura dell'antico testo soltanto ad un'occasione di polemica politica di bassa lega contro la società a lui contemporanea, dimenticando di collocarlo nel momento in cui esso fu prodotto.
Di questo contesto storico si occupa diffusamente Giovanni Tabacco in un saggio, «La storia politica e sociale», apparso a Torino nel 1974, nel vol. II, 1 della «Storia d'Italia» della Einaudi (pp. 5-274).
La parte che ci riguarda (pp. 190-191) spiega che le grandi affrancazioni deliberate nel 1257 a Bologna e nel 1289 a Firenze per i servi «de persona e de terra», sono frutto di interventi del potere politico cittadino, attuati durante la prevalenza del «popolo» e delle «Arti», quando furono indebolite le strutture delle dominazioni rurali, favorendo così «l'osmosi sociale ed economica fra campagna e città».
Pur rientrando «in quello spontaneo processo di liberazione dai vincoli servili, da tempo connesso con la disordinata proliferazione dei nuclei di potere concorrenti», esse «avevano pur qualche significato nella generale contestazione, contadina o cittadina, ad una secolare struttura signorile egemonica».
All'inizio del X sec. (pp. 158-159), a Milano s'era avviato un processo della classe servile che mirava ad ottenere la condizione di «aldii», ovvero di semiliberi, come erano detti presso il popolo longobardo.
Ottone III nel 998 a Pavia emana disposizioni generali per frenare questo movimento di spontanea liberazione, obbligando i servi a dichiararsi tali ogni 1° dicembre, mediante il versamento di un denari al padrone o ad un suo agente a ciò deputato (p. 159).
Si condannava così, osserva Tabacco (pp. 159-160), quell'«appetitum libertatis» dei servi, che stava dilagando soprattutto nei vasti e dispersi patrimoni ecclesiastici, proibendo l'uscita dalla servitù per chi era dipendente da una chiesa. Per cui quei servi erano equiparati da Ottone III alle cose.
Ricordiamo infine, sempre con Tabacco (p. 178) e come conclusione del discorso, che il distretto politico che fa capo alla città si allarga progressivamente attraverso un «groviglio» di fatti, convenzioni e sottomissioni violente «che fanno convergere sulla città le forze del contado».

Alla versione precedente del 2015.
Alla versione completa del 2016 di "Riletture"

Antonio Montanari
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