Fuorisacco, 29.01.2016.  «Amicizia civica», ma prima viene la Giustizia.
A proposito del volume edito da "il Ponte".
Articolo ospitato sul "Ponte" del 7 febbraio 2016.

Nella mia nota su «Rimini, dieci anni di economia» ("il Ponte" del 24 gennaio 2016), ho citato, dall'introduzione di Stefano Zamagni, il concetto di «movimento di amicizia civica fondata sul rispetto, la collaborazione e la condivisione», proposto quale itinerario per migliorare la nostra economia.
Padre del concetto di «amicizia civica» (da intendersi quale «concordia politica», secondo Nicola Abbagnano), è quell'Aristotele che giganteggia nella mente del personaggio manzoniano di don Ferrante. Il quale lo aveva scelto come suo autore per essere pure lui un filosofo («Promessi sposi», cap. XXVII), anzi un «dotto», come si legge nel passo dove (cap. XXXVII) si dà notizia della sua morte per peste, ovvero per quella strana realtà indimostrabile mediante ragionamento, ma da lui ammessa soltanto quale effetto delle influenze astrali.
Don Ferrante era in buona compagnia: sua moglie donna Prassede (cap. XXV) «faceva spesso uno sbaglio grosso, ch'era di prender per cielo il suo cervello».
Se sovrapponiamo all'aristotelismo di don Ferrante le pretese interpretative "totalitarie" di donna Prassede, otteniamo l'ideale figura dell'ipotetico filosofo odierno che crede all'«amicizia civile» di Aristotele, ma dimentica che essa è concordia tra uguali in un mondo di disuguali. Infatti, Aristotele ritiene che «per natura» ci siano uomini capaci di fare i cittadini ed altri no. Né i coloni né gli operai potevano essere cittadini, ovvero partecipare al governo della cosa pubblica. Pensando che «per natura» gli uomini non sono uguali, Aristotele legittima la schiavitù.
Per tanti fenomeni odierni cerchiamo una concordia politica, anche se non ci preoccupiamo che essa sia garantita da un rinvio non ad Aristotele ma alla nostra Costituzione. Vengono a proposito queste preziose parole di Vladimiro Zagrebelsky («La Stampa», 23.11.2015): «La libertà richiede rispetto degli altri e eguaglianza. [...] Il vero ineliminabile collante è la tolleranza consapevole. Essa non è relativismo indifferente, ma riconoscimento delle libertà altrui».
L'«amicizia civile» di Aristotele non perviene a questo riconoscimento. La formula affascina, ma il suo retroterra non garantisce nulla, come dimostra la storia d'Europa che, scrive Zagrebelsky, «ha conosciuto roghi e fucilazioni di eretici e oppositori», per cui dobbiamo difendere «la società aperta, plurale, tollerante» che «è più debole di quella resa monolitica da una unica ideologia totalitaria».
La forza di questa debolezza sta nel credere che la «tolleranza consapevole» non nasce da ipotetiche amicizie civiche, bensì da buone radici di dialogo e confronto, che ogni giorno sta a noi di cercare e trapiantare dovunque.
Ancora Zagrebelsky. Il 24 dicembre su «Repubblica» ha scritto che, nella vita politica, occorre mirare a rifiutare l'«ingiustizia radicale» dell'utopia (perché «la giustizia solo razionale può diventare un mostro assassino»), attraverso l'educazione, il cui uso da parte della politica andrebbe sottoposto a controllo.
Stesso giornale e stessa data: il lungo pezzo di Eugenio Scalfari su «Misericordia. L'arma di Papa Francesco per la pace nel mondo», si chiude con un augurio: «che la fratellanza e l'amore del prossimo, la libertà e la giustizia abbiano la meglio su tutto il resto».
L'«amicizia civica» è nulla se non scaturisce da uguaglianza, libertà e giustizia. È significativo il fatto che il nuovo Vescovo di Palermo, don Corrado Lorefice, nell'insediamento ufficiale, ha citato alcuni articoli della nostra Costituzione, tra cui quello (il n. 3) che recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge...».
Alla vigilia di Natale, su «Venerdì», Curzio Maltese ha affrontato il tema della dignità, con una visione negativa della realtà italiana: «La perdita di dignità è inflitta dall'alto al basso, ma viaggia anche in senso inverso e ormai i cittadini non hanno alcuna considerazione delle istituzioni e delle élite». Così «un veleno violento» si sparge nella società, facendo risorgere razzismo e xenofobia, e favorendo «la folle corsa a nuove catastrofiche guerre».
E proprio nella Messa della Notte di Natale, il Papa ha parlato della necessità di «coltivare un forte senso della Giustizia».

Antonio Montanari
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