Fuorisacco, 30.12.2015.  Amicizia? Meglio la Giustizia.
A proposito del volume "Rimini, dieci anni di economia. Tra passato e futuro", edito da "il Ponte".

Padre del concetto di «amicizia civica» (da intendersi quale «concordia politica» secondo Nicola Abbagnano [«Dizionario di Filosofia», I]), è quell'Aristotele che giganteggia nella mente del personaggio manzoniano di don Ferrante.
Il quale lo aveva scelto come suo autore per essere pure lui un filosofo («Promessi sposi», cap. XXVII), anzi un «dotto», come si legge nel passo dove (ib., cap. XXXVII) si dà notizia della sua morte per peste, ovvero per quella strana realtà indimostrabile mediante ragionamento, ma da lui ammessa soltanto quale effetto delle influenze astrali.
Don Ferrante era in buona compagnia: sua moglie donna Prassede (ib., cap. XXV) «faceva spesso uno sbaglio grosso, ch'era di prender per cielo il suo cervello».

Se sovrapponiamo all'aristotelismo di don Ferrante le pretese ermeneutiche “totalitarie” di donna Prassede, otteniamo l'ideale figura del filosofo odierno che crede all'«amicizia civile» di Aristotele, ma dimentica che essa è concordia tra uguali in un mondo di disuguali.
Infatti, come si studiava un tempo, Aristotele ritiene che per “natura” ci siano uomini capaci di fare i cittadini ed altri no.
Ad esempio, né i coloni né gli operai potevano essere cittadini, ovvero partecipare al governo della cosa pubblica.
Ritenendo che “per natura” gli uomini non sono uguali, Aristotele legittima la schiavitù.

Il nostro richiamo alle pagine manzoniane sulla strana coppia Ferrante-Prassede, è non un vuoto ricordo di cose passate, ma un solido richiamo ai tanti fenomeni odierni per cui cerchiamo una concordia politica, anche se non ci preoccupiamo che essa sia garantita da un rinvio non ad Aristotele ma alla nostra Costituzione.
Vengono a proposito queste preziose parole di Vladimiro Zagrebelsky («La Stampa», 23.11.2015): «La libertà richiede rispetto degli altri e eguaglianza. […] Il vero ineliminabile collante è la tolleranza consapevole. Essa non è relativismo indifferente, ma riconoscimento delle libertà altrui».

L'«amicizia civile» di Aristotele non perviene a questo riconoscimento. La formula affascina, ma il suo retroterra non garantisce nulla, come dimostra la storia d'Europa che, scrive Zagrebelsky, «ha conosciuto roghi e fucilazioni di eretici e oppositori», per cui dobbiamo difendere «la società aperta, plurale, tollerante» che «è più debole di quella resa monolitica da una unica ideologia totalitaria».
La forza di questa debolezza, ci sembra, sta nel credere che la «tolleranza consapevole» non nasce da cattive amicizie civiche ma da buone radici di dialogo e confronto, che ogni giorno sta a noi di cercare e trapiantare ovunque.

Ancora Zagrebelsky. Il 24 dicembre su «Repubblica» ha scritto che, nella vita politica, occorre mirare a rifiutare l'«ingiustizia radicale» dell'utopia (perché «la giustizia solo razionale può diventare un mostro assassino»), attraverso l'educazione, il cui uso da parte della politica andrebbe sottoposto a controllo.

Stesso giornale e stessa data: il lungo pezzo di Eugenio Scalfari su «Misericordia. L'arma di Papa Francesco per la pace nel mondo» si chiude con un augurio: «che la fratellanza e l'amore del prossimo, la libertà e la giustizia abbiano la meglio su tutto il resto».

Dunque, per tornare al principio di questa nota, l'«amicizia civica» è nulla se non scaturisce da uguaglianza, libertà e giustizia, con buona pace di Aristotele e dei suoi lettori di oggi.
Dovrebbe apparire significativo il fatto che il nuovo Vescovo di Palermo, don Corrado Lorefice, nell'insediamento ufficiale, ha citato alcuni articoli della nostra Costituzione, tra cui quello (il n. 3) che recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge…».

Alla vigilia di Natale, sul «Venerdì» di «Repubblica», Curzio Maltese ha affrontato proprio il tema della dignità, con una sostanziale visione negativa della realtà italiana: «La perdita di dignità», ha scritto, «è inflitta dall'alto al basso, ma viaggia anche in senso inverso e ormai i cittadini non hanno alcuna considerazione delle istituzioni e delle élite».
Così «un veleno violento» si sparge nella società, facendo risorgere razzismo e xenofobia, e favorendo «la folle corsa a nuove catastrofiche guerre».
Proprio nella Messa della Notte di Natale, il Papa ha parlato della necessità di «coltivare un forte senso della Giustizia», dando così ragione al suo amico Eugenio Scalfari ed all'articolo di quel giorno, apparso su «Repubblica».

Ed a proposito di Giustizia, proprio la Chiesa di Roma è tirata in ballo da un'inchiesta nata al suo interno sull'Apsa, l'Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica: «Poi, sull'iniziativa è sceso il silenzio», commenta Filippo di Giacomo, notista de «il Venerdì» (24.12.2015). Ed infine c'è il processo vaticano “sospeso” contro i due giornalisti italiani Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi.
Ovvero, non basta parlare di Giustizia, ma occorre praticarla.

Antonio Montanari
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  Fuorisacco, 20.12.2015.  TRE per dieci. Rimini e l'economia.
Un volume edito da "il Ponte".

In «Rimini, dieci anni di economia. Tra passato e futuro», Primo Silvestri offre un'antologia accurata del lavoro suo come direttore, e della redazione che lo affianca nel mensile «TRE» («TuttoRiminiEconomia»), per le edizioni de «il Ponte», settimanale riminese che lo offre in allegato ai lettori ed a 1.500 aziende del territorio.
Sono tanti gli argomenti esposti in queste 120 pagine, con l'occhio attento ai dati di fatto, per cui il lettore paziente può ricostruire una specie di carta geo-economica, osservando le realtà in movimento, quelle in crisi, e quelle che si annunciano come novità nel mercato del lavoro.
Per quanto m'interessa, ho letto con piacere alcune righe molto schiette sull'industria culturale di Rimini, caratterizzata dal fatto che la nostra città non ha saputo valutare correttamente le proprie potenzialità, «quindi ricavandone meno di quello che sarebbe possibile» (p. 66).

Appartengo ad una generazione che ha visto Rimini nei primi anni '50 attivarsi per un impegno culturale legato al turismo, sia per “allungare” (come si diceva allora) la “stagione” dei bagni, sia per valorizzare un patrimonio artistico a cui non è esagerato attribuire un significato europeo. Come quel Tempio malatestiano la cui riconsacrazione, dopo i lavori post-bellici, fu accompagnata da una famosa «Sagra Musicale» organizzata da Carlo Alberto Cappelli.
Quella Sagra delle origini è oggi finita nel dimenticatoio, con addirittura un cambio di “padrinato” (se così si può dire), attribuito a chi allora non ebbe nessun ruolo al di fuori del botteghino dei biglietti d'ingresso, affidato al cav. Primo Gambi ed al suo personale.
La storia economica di Rimini è fatta anche di queste amare annotazioni che vanno ricordate, per comprendere quanto ci ha portato alla realtà di oggi, che nel cap. quinto («Cultura è competitività») del volume di Silvestri si sottolinea giustamente.

Al proposito segnalo l'altrettanto attenta analisi apparsa, in forma di intervista al prof. Attilio Gardini, nel n. 5 di «Socialmente Carim» (aprile 2015), soprattutto per il passo dove si legge che la crisi del turismo riminese «è attribuibile a carenze specifiche locali, perché la domanda è tuttora crescente a tassi sostenuti».
Le nostre potenzialità non sono valorizzate per fattori e limiti strutturali, e per errori nella comunicazione. Così, l'offerta riminese, in vari settori tra cui appunto la cultura, è entrata in crisi con «danni rilevanti», sia nel contesto aziendale sia in quello sociale («disoccupazione, denatalità, migrazioni, ecc.»).

Il lavoro di Silvestri e dei suoi giornalisti è introdotto da Stefano Zamagni (mio compagno di banco nell'indimenticabile prima media con il prof. di Lettere Romolo Comandini).
Zamagni offre un duplice itinerario da percorrere, per migliorare lo stato delle cose.
Il primo riguarda l'amministrazione «condivisa» tra l'ente locale e le espressioni della società civile, per disegnare assieme il sentiero di sviluppo.
La seconda strada, che deve correre parallela all'altra (ma che si dovrebbe iniziare a costruire per prima, secondo il mio modesto parere), è il «movimento di amicizia civica fondata sul rispetto, la collaborazione e la condivisione».
È un bene, mi permetto di concludere, che finalmente anche gli economisti, talora molto dogmatici nelle loro enunciazioni teoriche, s'accorgano come lo spirito del dialogo, invocato dai filosofi e non soltanto da oggi (non per nulla la formula di «amicizia civica» risale ad Aristotele), sia fondamentale per una società in cui tanti grandi fatti economici sono stati favoriti da interventi finanziari “dall'alto”, e non soltanto a Torino (Fiat) ma pure a Rimini, circa mezzo secolo fa.
Si avviarono mitologie personalistiche che hanno favorito uno strapotere “burocratico” nella vita pubblica ed in quella finanziaria, in virtù di “racconti” mai tramontati, creando illustri genealogie da antico regime e non da matura democrazia.

Quindi, cerchiamo tutti di realizzare questa «amicizia civica» di cui parla l'amico Stefano Zamagni, se quelli che detengono i vari poteri ce lo permetteranno. Del che, dubito fortemente, non per innato pessimismo, ma per documentazione storica da tutti reperibile.

Nota bibliografica.
«L'amicizia civica in Aristotele» è un saggio del prof. Letterio Mauro del 2013, in «Nuova Umanità», XXXV (2013/4-5) 208-209, pp. 457-468.
Il 7 maggio 2015 a Perugia si è tenuta una tavola rotonda sul tema «Società civile, fraternità e dialogo interreligioso: prospettive di un nuovo umanesimo», richiamando la riflessione politica di Jacques Maritain.
Già nel 2010 Andrea Luzi a Vicenza ne aveva trattato ad un convegno intitolato «Caritas in veritate: manifesto per un nuovo umanesimo».

L'argomento prosegue qui.

Antonio Montanari
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