Tama 997, 13.06.2010
Ha ragione Pupi Avati

Sosteneva Federico Fellini che chi ha visto Bologna, ha visto il mondo. Da Bologna magistra, nel suo ricordo, arriva la voce di Pupi Avati, presidente di una fondazione cittadina intestata all'autore di "Amarcord". Voce critica, pungente, amara perché addolorata. Non per vigliaccheria, ma unicamente per mancanza di spazio, tralascio la polemica che riguarda le future sorti della fondazione. Mi soffermo soltanto su di un passaggio dell'intervista che Avati ha concesso a Manuela Angelini del "Corriere Romagna" il 4 giugno. Per mio fatto personale di piccola devozione domestica verso quella frase di Fellini su Bologna custode dei segreti universali, accetto come oro colato l'opinione che Pupi Avati ha espresso sopra la cattiva abitudine riminese di dare ragione a chi parla con la voce più alta.
Avati ovviamente non conosce altri segreti indigeni. Ma la frase da lui pronunciata limitatamente alle vicende della fondazione Fellini, ai miei occhi assume il valore di massima morale capace di sintetizzare costumi e malcostumi molto diffusi. Aggiungerei soltanto che con il passare dei decenni (non sempre il tempo fa migliorare le cose come il vino in cantina), alla pessima abitudine segnalata da Avati, si è aggiunto un altro fatto che chiamerei il servilismo a cottimo. Per cui chi mira a qualche risultato personale, s'abbassa a rendere qualsiasi basso favore a chi manovra i cordoni della borsa o custodisce le chiavi delle segrete stanze del potere.
Il caso concreto. Sulle colonne del Ponte nel 2006 scrissi che se la biblioteca Gambalunga (1619) è la terza in Italia ad essere pubblica dopo l'Ambrosiana di Milano (1609) e l'Angelica di Roma (1614), a quella di Francescani e Malatesti del XV secolo (e futura Universitaria...) spetterebbe il merito di essere stata la prima in assoluto. La mia nota provocò qualche ira nascosta poi divenuta una voce circolante contro il sottoscritto, prendendo corpo in un articolo di giornale tra il folle ed il fantasioso.
Folle perché contro ogni evidenza si negava la biblioteca, attestata da inventario del 1561 edito nel 1901. Fantasioso perché nell'accusarmi di aver scritto la solita "patacata riminese", si aggiungeva che ero attaccato da un "libello" apparso nelle librerie. L'autore dell'articolo mi confidò che non di libello trattavasi ma di una mail giunta in redazione. Orbene se una redazione dà ascolto ad una voce messa in giro, è perché la reputa gridata al punto di essere vera. [997]

Al dossier sulla Biblioteca Malatestiana di San Francesco a Rimini.

Antonio Montanari
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